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VivendoByte.ByteAdventure

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Il byte e l’incontro con gli Spettri

E’ una nottata frizzante e ricca di eventi, per la città. Un byte qualunque, uscendo dalla sua locazione di memoria – sospinto dal bus di trasmissione – l’avrebbe capito immediatamente. E’ come se nell’aria ci fosse uno strano fermento, una specie di energia capace di spingere tutti all’euforia. I locali erano agitati da spettacoli musicali di ogni tipo, dal rock al jazz, fino a melodie più ricercate eseguite da artisti di nicchia che intrattenevano il loro pubblico. Ciascuno dei byte poteva trovare tranquillamente il suo envinronment preferito: bastava lasciarsi trasportare dal battito del clock ed il gioco era fatto.

In uno dei tanti locali c’era stato un ritrovo di vecchi amici che, tra un boccale di sprite e l’altro, si erano raccontati con un velo di malinconia i tempi che furono. Nessuno di loro era davvero troppo vecchio, ma il loro lifetime era comunque sufficientemente ampio da far comparire stream di capelli bianchi sulle loro chiome. I più anziani venivano da vecchie console 8-bit degli anni ‘90, la cui potenza di calcolo era appena sufficiente per soddisfare le esigenze dei videogame dell’epoca, mentre i più giovani erano nati su sistemi più recenti. Uno di loro si vantava addirittura di non essere stato ancora shutdownato neppure una volta; pivello, lo definivano gli altri. Una delle fasi più importanti per la crescita di un byte è proprio quella di capire se si è un byte persistente oppure transiente. Se vivi al sicuro su un hard-disk – e quindi in grado di sopravvivere tra una sessione di lavoro e l’altra – oppure in forma più volatile allocato in memoria RAM. E questo lo puoi capire solo attraverso un processo di shutdown. Chi non lo aveva ancora capito era un pivello.

Il locale del ritrovo, il Buffer, si trovava in un array di byte, in una posizione defilata del file di swap del sistema operativo, ed era stato scelto proprio per la sua location di memoria. Grazie all’elevato livello di entropia del file .swp, i byte potevano spostarsi al suo interno senza disturbare più di tanto le celle adiacenti tenute sotto stretta sorveglianza dall’OS. Man mano che passava il tempo, i partecipanti al ritrovo tornavano nelle loro celle. Il Task Scheduler del sistema operativo era inesorabile, e consultandolo ogni byte poteva sapere quali compiti lo aspettavano il giorno dopo. Byte[739082] era stato assegnato ad un file batch non meglio identificato. Byte[90824293] sapeva che avrebbe dovuto prendere vita nel processo “SearchIndexer.exe”, e lo aspettavano montagne e montagne di file e di directory da indicizzare. Ogni byte – in un sistema che si rispetti – sa chi è e sa che cosa ci si aspetta da lui.

Alla fine rimasero solo in due, il byte ed un ammasso di classi partial. Si salutarono brindando un’ultima volta, svuotarono i bicchieri fino in fondo, poi ciascuno prese la sua strada.

Il byte uscì dal locale, felice di quella rimpatriata, ed imboccò la direzione più rapida per raggiungere il bus PCI Express che l’avrebbe condotto in pochi istanti a casa. Percorse un tratto di strada di buona lena, cadenzando il suo passo con il battito del clock per rispettare le normative vigenti. Meglio non ficcarsi nei guai a quell’ora.

Il byte non poteva sapere che sarebbero stati i guai ad andare alla sua ricerca. Girò per entrare in un vicolo buio e scuro, ai cui lati erano ammassati frammenti di memoria, messi qua e là in mezzo a sporcizia di ogni tipo. Di sicuro il Garbage Collector non passava da lì da un bel po’.

Fu allora che vide gli Spettri.

Comparvero alle sue spalle, uscendo dalle pareti, trascinandosi lentamente come fantasmi in grado di attraversare le superfici solide. Erano figure evanescenti di ogni tipo, umanoidi e non. Erano decine e decine, e si fecero largo uno alla volta fino ad occupare tutto il vicolo. Poi si voltarono verso il byte, che era rimasto pietrificato dalla visione, al punto che non riusciva a capire se si trattasse di realtà o di un brutto incubo. Non seppe cosa fare. L’istinto gli stava suggerendo di uscire dal vicolo e di darsela a gambe, dimenticando quegli esseri inquietanti. Ma qualcosa lo trattenne, e non potè fare a meno che osservarli, lottando con tutte le sue forze per rimanere lucido.

C’era un marine, armato fino ai denti, imbottito in un’uniforme da guerra tutta ammaccata. Sul casco era riportata la dicitura UAC, e questo non lasciava dubbi sulla sua origine.
C’era un tale che aveva tutta l’aria di essere uno scienziato. Un tizio piuttosto magro, che indossava soltanto una tuta lacerata ed un paio di occhiali da professore, su cui capeggiava quello che sembrava essere il suo nome: Gordon Freeman.
Poco più indietro, seduta a terra mentre consultava un’antica pergamena, c’era una giovane ragazza dalle forme prosperose, e non faceva nulla per nasconderle. Se ne andava in giro in un posto come quello indossando una semplice canottiera celeste, e shorts che mettevano in bella mostra le sue gambe. Era tutta concentrata a decifrare un simbolo che aveva un qualcosa di religioso, e non si curava di nient’altro.
C’erano membri di una sorta di famiglia reale fantasy, riconoscibili per il loro vestiario sgargiante.
C’era una bambina dai lunghi capelli neri, che in modo timido si guardava le mani senza avere il coraggio di alzare lo sguardo verso il byte o gli altri. Che fosse Alma?

C’erano altri uomini, altre donne, un androide scheletrico con al posto degli occhi due lampadine rosse.

Oltre a tutti questi personaggi, ce n’erano altri di statura più piccola. C’erano folletti e creature di varie specie. Chi strisciava, chi saltellava, chi svolazzava freneticamente. C’erano piccoli draghi, viscidi serpentelli sputafuoco, ed altri esseri a cui il byte non seppe dare un nome. C’era chi era silenzioso, e invece chi non poteva fare a meno di respirare rumorosamente.

Era un’accozzaglia di personaggi di ogni tipo, usciti in modo spettrale da chissà dove.

Ma il byte notò – nonostante il suo stato mentale alterato – che c’era qualcosa che non quadrava affatto, qualcosa di insano e di innaturale, che lo inquietava ancora di più. Quando ne fu cosciente provò una strana sensazione di terrore, un formicolio che fece tremolare la composizione di bit che lo rendevano vivo. Rimase in silenzio, e non seppe cosa fare.

Tutti quegli esseri erano emaciati ed in qualche modo perverso, anche deperiti. Erano apparsi tutti in una scala di grigi povera, con un canale alpha dai valori elevati. Il marine sembrava l’ombra di ciò che fu un tempo; sembrava debole, e non aveva affatto l’aspetto di una persona forte ed indistruttibile. Anzi, teneva le spalle ricurve su se stesso. Se il byte avesse potuto guardarlo per un attimo negli occhi, avrebbe notato che era sull’orlo di una crisi di pianto. La ragazza, nonostante il fisico impetuoso, mostrava un’età più avanzata di quella che aveva in realtà. E sembrava isterica, continuava a sistemarsi nervosamente la coda di cavallo. Grattava la pergamena continuamente con l’unghia, come se tentasse di estrarne la verità violentando la carta, per cui invece avrebbe dovuto avere soltanto rispetto. La bambina, che lui aveva battezzato Alma, sembrava la classica protagonista di un videogame horror, una di quelle dall’aspetto inquietante, disegnate appositamente per atterrire il giocatore. Teneva la testa bassa, con i capelli che nascondevano in parte il volto pallido.

Di fronte a quell’orda di creature, il byte non ebbe altra reazione se non quella di parlare.

– Chi siete? Cosa volete da me?

Prima che qualcuno rispose, passò molto tempo. Tra la folla di esseri decadenti si fece largo un mago con addosso una tunica rossa. Nella mano destra impugnava un bastone di quercia decorato con rune e simboli arcaici luminescenti. In condizioni normali sarebbe stato alto ed imponente. Adesso era davvero molto vecchio, ed era quasi trasparente. Persino il bastone sembrava sul punto di spezzarsi da un momento all’altro; era annerito, marcio e ad ogni passo che il mago faceva verso il byte, si piegava cigolando un poco. Come se si fosse autoproclamato portavoce del gruppo di creature, il mago si portò davanti a tutti, fino a raggiungere il byte.

– Siamo gli Spettri

La voce non era una sola. Era una cacofonia di voci, come se insieme al mago stessero parlando anche tutti gli altri, che però non si erano mossi di un millimetro.

– Siamo Giochi Incompleti, Giochi in disuso, Giochi Abbandonati. Siamo personaggi che i Creativi hanno abbandonati nei loro mondi, immersi nelle loro esperienze. Siamo maghi senza più un briciolo di magia, siamo un’archeologa perennemente braccata dai suoi nemici. Siamo un marine con una guerra da vincere freezata nel tempo, siamo draghi dal soffio di fuoco congelato. Siamo principesse che non verranno mai salvate, siamo gare di rally senza un vincitore. Siamo bambini senza le loro madri. Siamo palline da golf sospese in aria, senza mai sapere se saremo un par o un birdie. Siamo flotte interstellari alla deriva nello spazio profondo. Siamo esseri condannati, di ogni tipo, forma e colore.

Un respiro, un lungo istante. Un istante in cui il byte forse cominciò a capire.

– Tutte le volte che il creativo comincia un nuovo gioco, lo deve portare a termine. Altrimenti rimarremo intrappolati per sempre. Diventiamo personaggi senza scopo, esseri senzienti che vagano nel sistema senza una meta, costretti a vivere a metà, in un mondo a metà strada tra la nostra realtà virtuale e l’incubo costante. Ed alla fine diventiamo Spettri.

– Come posso aiutarvi? Cosa posso fare per voi?

In quel momento un urlo fece trasalire il byte. Fu la ragazza – probabilmente l’archeologa – ad emetterlo. Fu un grido di frustrazione, probabilmente la pergamena metteva a dura prova le sue conoscenze di lingue antiche. O forse era altro. Forse era solo la profonda disperazione per la sua condizione. Ma le voci, guidata da quello del mago, riportarono il byte alla realtà.

– Oh, sei gentile a chiederlo. Ma non puoi fare nulla. Solo il Creativo può salvarci. Deve riportarci in vita, o disinstallarci definitivamente. In queste condizioni siamo tecnicamente vivi, ma non ci sentiamo affatto come tali. Guardaci. Preferiremmo morire. Preferiremmo essere lasciati andare liberamente, e decidere del nostro destino, e di non essere imprigionati quaggiù.

– Ma allora perchè mi siete apparsi? Cosa volete che io faccia?

Di nuovo il mago attese un attimo prima di rispondere, come se avesse bisogno di pensarci.

– Oh, ecco la domanda più importante di tutte. Cosa vogliamo da te? Vogliamo divorarti, assaporarti fino all’ultimo bit. Vogliamo accedere alla tua linfa vitale, e dopo di te, divorare un altro byte, e poi un altro ancora, uno alla volta, fino a conquistare l’intero sistema. Ci sono trilioni e trilioni di byte, in questo hardware. Saranno tutti nostri. Diventeranno tutti Spettri, vagheremo tutti assieme in questo oblio fatto di dannazione.

Poi i volti si fecero famelici. Tutti, dal primo all’ultimo, alzarono lo sguardo vacuo, ed aprirono le loro bocche, mostrando denti piccoli ma aguzzi e deturpando il loro volto in una maschera. Divennero mostri a tutti gli effetti, e cominciarono ad avvicinarsi al byte, trascinando un passo dopo l’altro. Non mostrarono alcuna fretta, come se quello del byte fosse un ineluttabile destino già segnato, dal quale non poteva scappare.

Il byte si riprese ed in un attimo indietreggiò. Guardando dietro di sè, vide che nulla gli impediva di scappare via da quel posto. Ed infatti fece ciò che gli suggeriva l’istinto. Si voltò e se la diede a gambe, cercando di allontanarsi il più possibile da quelle creature. Raggiunse la fine del vicolo, dal lato opposto rispetto a quello da cui si trovava il Buffer. Tornò alla sicurezza della luce dei lampioni digitali che, con il loro bagliore vagamente #FFFFFF, lo avevano tranquillizzato un pochino. La gente che camminava sulla strada principale era poca, ciò nonostante c’era ancora qualcuno che si divertiva e che teneva fra le mani il suo drink, incurante degli esseri immondi che vivevano (o tentavano di farlo) a pochi passi da loro.

Prese un po’ di coraggio, cercando di dimenticare, scese le scale per entrare nel metrobus, così come aveva pensato di fare fin dall’inizio, ed in pochi attimi era al sicuro nella sua locazione di memoria, in uno dei registri della CPU. Si chiese dove fossero adesso gli Spettri, chi stessero divorando. Ci mise molto a prendere sonno, e fu comunque un sonno agitato e pieno di incubi.

Al suo risveglio, c’era stato un nuovo boot del sistema, ed il clock scaldava il pavimento vibrante.
Al prossimo ritrovo fra amici avrebbe avuto una storia in più da raccontare.

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[byte.adventure] Il lazo del tempo

Ci sono parecchie cose che la scienza attuale non riesce a spiegare.
Luoghi remoti e sconosciuti, dove ogni anno spariscono navi ed aerei. O penne, o palloni da calcio.
UFO che compaiono in dipinti di artisti italiani del XIV-XVI secolo.
Oggetti che spariscono, che compaiono là dove non dovrebbero essere, che non sembrano essere coerenti, in quel luogo, in quel tempo, e che invece ci sono.
Ma una spiegazione – come sempre – c’è.

Anno 1817 – Da qualche parte a Vienna (Austria)

E’ ancora buio, l’uomo è già sveglio, e rimane sotto le coperte del suo letto. E pensa.

E’ l’alba, e non riesco a dormire. E sono sordo, non posso più negarlo, dannazione. E’ poco più di vent’anni che le mie orecchie non funzionano più come un tempo. Sono peggiorate. Nessun medico è stato in grado di aiutarmi. Ed oggi sono completamente sordo, dannazione. E per un musicista non c’è nulla di peggiore che l’esser sordi. Passo notti inquiete ed agitate; sento musica, note, accordi e sinfonie che prendono vita nel mio cuore e dentro di me…musica a cui non riesco a dar forma la mattina dopo, quando poi mi sveglio. Non penso di farcela, di andare avanti, da oggi vivrò isolato, in sofferenza, e non mi importa nulla di quello che potrà pensare la gente di me. Mi crederanno pazzo, ostile, scontroso, un misantropo fallito. Ma non mi importa di loro, e comunque non ho scelta. Molto probabilmente dovrò anche abbandonare la mia musica, che è stata la grande ispirazione della mia vita. E lo sarà sempre.

Dal futuro
Il viaggio nel tempo non è stato ancora inventato. Ma lo sarà molto presto. Il primo esperimento considerato valido di viaggio nel tempo, secondo Wikipedia, avverrà il 17 Febbraio 2031. Per voi che state leggendo è il futuro, per me che vi scrivo è il passato. Non posso dirvi dove avverrà e chi sarà a capo di tutto questo, rischierei di alterare troppo il normale continuum del tempo. Il primo viaggio nel tempo sarà ovviamente una cosa molto semplice: il trasferimento di qualche molecola di H2O, acqua, quattro secondi dal passato. La vera rivoluzione (disponibile però solo ad università, enti paramilitari ed alcune società hi-tech), verrà introdotta solamente due anni più tardi, con l’invenzione di quello che verrà poi battezzato semplicemente come “il lazo del tempo”.

Tutti sappiamo – credo – cosa sia un lazo. E’ quello strumento utilizzato dai cowboy nordamericani per praticare il cosiddetto roping, ovvero la cattura di quadrupedi o di bestiame, attraverso il lancio di un’estremità della corda avente la forma di un cappio. Nel caso del viaggio nel tempo le cose sono più complesse, ovviamente, ma non andiamo OT, tralasciamo equazioni quantistiche, fluttuazione delle costanti universali e materiali utilizzati nel processo: spiegandolo con parole semplici, e rimanendo ad un livello puramente concettuale, le cose sono molto simili.

Possiamo lanciare il lazo nel passato o nel futuro, e prelevare quindi materia passata o futura.
Possiamo accorciare od allungare la corda del lazo, per muoverci più vicino o più lontano nel tempo.
Possiamo stringere od allargare il cappio, per prelevare oggetti di massa più o meno grande.

Gli oggetti devono essere di natura molto semplice. Dal punto di vista molecolare, intendo. Non riusciamo a prelevare persone, nè animali, nè organismi viventi; o meglio, non riusciamo a prelevarle mantenendone intatte le funzioni vitali. Ci abbiamo provato, chiaramente, ma i risultati sono stati alquanto sconfortanti. Sorvoliamo. La materia, dicevo, deve essere semplice. Un conto è ad esempio campionare qualche goccia d’acqua del Mediterraneo di mille anni fa, un altro è tentare di evitare l’assassinio di Kennedy asportando temporalmente il fucile di Lee Harvey Oswald a Dallas. Un conto è prelevare un qualsiasi brandello di pianta carnivora del Giurassico, un altro è prelevare il primo telegramma della storia inviato da Samuel Morse. Senza considerare poi le conseguenze nel continuum temporale, come dicevo prima. Insomma, dobbiamo essere cauti, dobbiamo valutare con attenzione cosa, dove e quando prelevare un determinato oggetto. Riflettere sui pro e sui contro.

Tre infatti sono le variabili in gioco.

Chiaramente il quando. Allungando il lazo, continuamo la metafora, si viaggia più distanti nel tempo. Accorciandolo si viaggia più vicini. Più la distanza temporale da coprire è grande, maggiore è il dispendio di energia che occorre per completare il viaggio. Grazie all’adozione di batterie nucleari dedicate, siamo in grado di viaggiare fino ad un limite di 25 miliardi di anni nel passato; l’età dell’Universo calcolata è di 13,77 miliardi di anni, e non si sa bene cosa debba accadere se si tenta di viaggiare più in là. Ma le equazioni quantistiche comunque lo dimostrano, e ci sono orde di scienziati e di fisici virtuali e reali al lavoro per riuscire a carpire questi nuovi segreti della realtà.

Un’altra variabile è il dove. Possiamo lanciare il lazo specificando latitudine, longitudine ed altitudine: questo chiaramente se vogliamo interagire con un luogo collocato sul nostro pianeta. Le equazioni dimostrano che possiamo raggiungere qualsiasi luogo dell’Universo, manipolando opportune variabili. Ad oggi non abbiamo ancora raggiunto queste capacità: le nostre tecnologie attuali ci consentono di prelevare oggetti nel raggio di circa 515,34 chilometri rispetto al punto in cui ci troviamo. Nessuno riesce a capire da dove arrivi questo limite di 515,34 chilometri. Quello che abbiamo capito è che se mi trovo in un punto X, posso prelevare ogni tipo di materia che si trovi in un’area compresa in un raggio di 515,34 chilometri: chiaramente nel quando desiderato. Oltre…la materia temporale arriva delocalizzata.

L’ultima variabile è il cosa, che di riflesso indica le dimensioni di materia da prelevare. Le dimensioni possono andare da una semplice molecola fino ad interi chilometri cubi di terreno. Dipende ancora una volta dall’energia che si intende consumare nell’operazione. Gli aerei sono stati un semplice diversivo per farvi credere determinate cose, ma è che così che la futura Al-Qaida ha fatto crollare le Torri Gemelle, l’11 Settembre 2001: semplicemente rimuovendo in un istante le gigantesche fondamenta su cui poggiavano i due enormi palazzi del World Trace Center. E’ così che abbiamo rimosso – a scopo di studio – il naso della Sfinge, che secondo la vostra storia convenzionale è stato distrutto in epoca ottomana. E’ così che abbiamo evitato che gli attentati ad Hitler riuscissero: avevamo bisogno che la II° Guerra Mondiale si concludesse come si è conclusa davvero.

Chiaramente, è molto meno rischioso interagire con il passato piuttosto che con il futuro. Il motivo è semplice. Trattandosi di storia già avvenuta, sappiamo quando e dove un certo oggetto si sia venuto a trovare, e quindi possiamo agire con migliori probabilità di successo. Non è sempre così, chiaramente, dobbiamo tenere in considerazione precedenti modifiche al continuum temporale, ma in linea generale sì. Dal futuro abbiamo solamente raccolto piccoli campioni della nostra atmosfera, per studiare e prevenire i futuri inquinamenti. Stessa cosa per il sottosuolo, per la superficie lunare e per quella di Marte. Tutto a scopo scientifico.

Ben presto, il lazo del tempo è diventato ancora più potente. All’inizio – come vi ho raccontato – era solamente in grado di prelevare materia. Successivamente siamo riusciti a sviluppare nuove capacità, una su tutte quella di poter inviare materia.

E’ con queste nuove possibilità che riesco a scrivervi dal futuro. Inviando pochi brandelli di informazione, che vengono scritte direttamente sulla Internet dei giorni vostri. E’ così che riesco a comunicare con voi, a fornirvi indizi, a stuzzicarvi dicendovi dove siete e verso cosa state andando. Dal mio futuro abbiamo attentemente manipolato il passato, senza travolgere la Storia. Abbiamo acceso scintille in registi cinematografici e scrittori di fantascienza, trasformato persone comuni in visionari e vicini di casa in geniali inventori, evitato attentati e incidenti stradali. Magari facendo trovare idee, schemi, sceneggiature, ed in qualche caso denaro. Molto denaro. E’ agendo in questo modo che siamo riusciti ad iniettare tecnologie, invenzioni, muovere la coscienza, ad indirizzarvi.

Ma non vi ho ancora detto chi sono.
E non ho alcuna intenzione di farlo.

Anno 1817 – Da qualche parte a Vienna (Austria)
L’uomo si alzerà dal suo letto soltanto qualche ora più tardi. E’ allora che – aprendo un cassetto della sua camera da letto – trova uno spartito musicale. Il titolo è in italiano e recita “Sonata per pianoforte n. 29”. Non l’ha mai visto prima, quello spartito. E’ una strana carta, molto ben lavorata, e si chiede da dove arrivi e chi l’abbia prodotta. E soprattutto…che diavolo vuol dire carta riciclata? Sarà qualche diavoleria moderna – pensa.

Legge le note, rigo dopo rigo, battuta dopo battuta. E’ la sonata più lunga che abbia mai visto in tutta la sua vita, ed anche dal punto di vista armonico è decisamente complessa. Eppure – si rende conto l’uomo – può funzionare. Anzi, gli sembra meravigliosa…è una sonata in quattro tempi che richiederà un certo impegno tecnico per essere eseguita come si deve. Ma gli piace. E gli piace soprattutto perchè in basso a destra è riportata la firma dell’autore.

E’ non è una firma qualunque. E’ la sua.
E’ la firma di Ludwig van Beethoven.

E’ così che il grande compositore e pianista tedesco continuerà a produrre musica nonostante la sua totale sordità, che l’ha afflitto negli ultimi anni della sua vita.

Con qualche aiuto proveniente da qualche parte dal futuro.

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[byte.adventure] La Stanza del tocco

Prologo
E’ passato molto tempo da quando l’entità ha trovato rifugio nella Stanza, ma è solo negli ultimi dieci reboot di sistema che si è reso davvero conto che in fondo contiene tutto ciò che gli serve, e non ha bisogno di nient’altro. E’ una stanza a pianta quadrata, essenziale e senza cose superflue. Non ha finestre alle pareti, l’unica luce naturale che illumina l’ambiente proviene dal soffitto, ed è una tenue luce arancione, con sfumature generate da un algoritmo AA4x davvero efficace. Spesso l’entità trascorre del tempo tentando di capire il vero motivo per cui rimane nella Stanza. E’ da sola, per cui non può discuterne con nessuno. Dopo lunghi cicli di clock di riflessione, a cavallo tra un restart e l’altro, ha raggiunto tre conclusioni.

La prima è che probabilmente se trova così affascinante la Stanza lo deve proprio a quei colori a metà strada tra alba e tramonto, che le regalano serenità e tranquillità in ogni momento. Una volta non sarebbe mai andata alla ricerca di quelle cose, ovviamente, ma alla fine quelle cose l’avevano raggiunta. Ed ormai non riesce più a farne a meno.

La seconda conclusione è che quella tavolozza di colori è sicuramente importante, ma c’è di più. C’è anche la melodia. E’ un brano semplice e soffice che le arriva dritto al cuore. Sono note digitali, chiaramente, uno stream wma, forse, campionato a 192kbps, forse. Non è schedulato, è totalmente asincrono, può arrivare da un momento all’altro senza preavviso, in orari AM o PM. E’ incuriosita; diverse volte ha pensato di lasciare la Stanza per indagare su quei suoni, ma poi ha sempre rinunciato. “Sicuramente si trovano su un altro piano di realtà, la UAC non mi darebbe accesso a quelle informazioni” – dice l’entità nel tentativo di convincere se stessa.

La terza conclusione è che c’è anche un terzo motivo. Il tocco. Il tocco la spaventa e la esalta allo stesso tempo. Arriva d’improvviso, a volte è leggero come una string.Empty, altre volte è pesante come una StackOverflowException con tutto lo StackTrace in allegato. Ma l’entità è spaventata soprattutto da una cosa.

Nel mondo totalmente digitale nel quale vive, il tocco è l’unico evento analogico che le sia capitato.

Mission Briefing
Quando il generale entra nel piccolo offset di memoria allocato per l’incontro segreto, gli altri si zittiscono all’istante. E’ esadecimalmente molto alto, e basta la sua sola presenza per trasmettere timore. E’ stanco, ma cerca di non darlo a vedere. Ha trascorso l’ultima notte in missione operativa, cominciata da qualche parte nel sistema con una chiamata ad un non meglio precisato metodo RunAsync(). La lettura di uno stream http, qualche calcolo matematico con le informationi recuperate e la restituzione di un’istanza di una class. Pensava di aver finito, ed invece il metodo proseguiva per altre 737 linee di codice managed davvero intenso. Se avesse potuto avrebbe parlato direttamente con il developer responsabile di quell’assurdità: gli avrebbe detto che uno dei motivi per cui è buona cosa scrivere metodi semplici e chiari, è che ogni entità software prima o poi deve riposarsi, dal byte alla classe più complessa. Un metodo deve avere una sua responsabilità, chiara e dettata dal suo nome: poche linee di codice efficaci e pulite. Miglior leggibilità, manutenzione e conseguente minor complessità del sistema software: sono tutte direttive che un buon dev dovrebbe seguire, ma che riguardano anche le parti più nascoste dell’hardware. Ed a volte non ci si pensa. Prova quasi dolore per la stanchezza, vorrebbe quasi un Dispose() da bere per rilassarsi, ma si siede e scruta i volti degli altri con asprezza.

“Signori, è l’ora di agire. Una fonte sicura ci ha indicato la posizione del nostro obiettivo” – muove leggermente la mano, ed in quel momento parte della parete alle sue spalle si trasforma in uno schermo, su cui viene renderizzata la mappatura della mainboard di sistema, in alta definizione. Le diverse aree sono evidenziate con colori vivaci ed in continuo movimento. Non è per nulla un’immagine bitmap statica. Ha più l’aspetto di un’immagine trasmessa in streaming che mostra ciò che sta realmente accadendo, come fosse una ripresa satellitare. Si vedono chiaramente flussi di informazione digitale che viaggiano in lungo e in largo: input da console, stream audio, thread di esecuzione, http context e molto altro ancora.

Il generale fa un piccolo pinch con le dita, e la mappatura comincia uno zoom-in lento e costante. In poche centinaia di migliaia di battiti di clock, la mappatura mostrata è talmente ravvicinata che mostra solo una piccola area di memoria, proprio a ridosso del chipset SATA.

“E’ un’area hardware molto difficile da trovare, se non si sa bene dove guardare” – pensa entity[3], seduto al tavolo, osservando con attenzione lo schermo – “Quant’è sicura la fonte? Come hai fatto ad identificare la zona, quale engine è stato utilizzato?” – chiede.

“Intellitrace, per rispondere alla tua ultima domanda. E’ un debugger delle ultime versioni di Visual Studio, ma grazie ai nostri tecnici siamo riusciti a renderlo low-level, disponibile per le nostre ricerche a tappeto. Come vedete, l’obiettivo si nasconde bene: quella che vedete è una zona inesplorata, che nelle precedenti versioni dell’OS non era utilizzata – o perlomeno non era strutturata in quel modo. Macerie di aggregate root, residui di domini DDD, nascondono l’ingresso. Ottenere l’immagine dump live è stato piuttosto complicato. Quanto alla fonte…non posso rivelarla: conviene a lui, e conviene a tutti noi: ciascuna delle entità coinvolte nell’operazione deve conoscere solamente la parte di sua competenza”.

“Quando agiremo?”

“Molto presto. L’intelligence force brute è già in azione, presto avremo la callback per ottenere i privilegi adeguati. E quando gireremo come system administrators nulla potrà più fermarci. Ricordatevi: dobbiamo prenderlo vivo ed istanziato, se vogliamo risalire l’intero stacktrace e rientrare in possesso dell’intero gruppo. Le fasi sono essenzialmente tre: avvicinamento aereo tattico classe live-aero, irruzione di tipo break e prelevamento soggetto pop inoffensivo. Procedura standard. Dieci settori mobilitati: sei staranno di guardia, ai lati ed agli ingressi; gli altri quattro entreranno nella stanza e neutralizzeranno il soggetto. Ricordate, facciamo tutto questo in nome della sua sicurezza. Si comincia, signori: siamo in azione”.

La riunione durò ancora per molto poco. Il tempo di definire qualche dettaglio e la messa in produzione di un assembly, che sarebbe tornato utile per l’operazione. Poi l’offset venne rilasciato nuovamente disponibile alla memoria di sistema.

Irruzione
Quella mattina presto l’entità stava ancora dormendo tranquilla. I colori della sua alba preferita erano ancora lontani, e la Stanza era immersa nel buio. Poi tutto avvenne in pochi attimi. Una velocissima RotateTransform fece ruotare il soffitto: d’un tratto si ritrovò capovolto e sbattuto su un piano inferiore. Cadde sul ciglio di un bus x64, mancò di un soffio qualcosa, forse un array di string ad alta velocità, rotolò su un fianco e cadde nuovamente…l’imbuto filtrava i bytes in coda nella pipeline grafica…non appena venne texturizzato, l’entità subì un altro jump, fino a quando…winzip tentò di comprimerlo…l’entità lo lasciò fare…lo stream compresso venne trasferito in un folder SkyDrive, scatenando l’aggiornamento della corrispondente live tile.

Era sballottato, confuso e senza fiato. Era accaduto tutto in pochi istanti; conosceva quella tecnica di jumping, che permetteva di saltare da un execution context all’altro senza la minima coerenza. Spesso veniva usata per far perdere le proprie tracce, più spesso per disorientare e catturare qualcuno.

Non provò dolore fisico: semplicemente non riuscì a capire nulla di ciò che gli stava accadendo. Poi un’esplosione accecante portò foreground e background sulla stessa tonalità 0xFFFFFF, perse temporaneamente la vita, non aveva più alcun metodo per orientarsi, guardarsi attorno, e fuggire.

Non riuscì a fare nient’altro che stare fermo ed immobile. Solo silenzio. Man mano che passava il tempo, l’entità tornò a vedere l’ambiente circostante. Con suo grande disappunto, si trovava ancora nella sua Stanza. Possibile che fosse stato tutto un sogno, un terribile incubo? Ma alla fine la verità gli si palesò inevitabile davanti agli occhi: ai quattro angoli c’erano quattro entità, armate fino ai denti, che lo tenevano sotto mira con raggi digitali che avrebbero potuto deallocarlo all’istante. Tentò di muoversi, ma la cella sealed nella quale era impantanato gli impediva qualsiasi movimento.

Lottare era inutile, quindi. Dopo tanto tempo, l’entità dovette arrendersi.
Alla fine l’avevano trovato.

Operazione “Recover Eight-Digit”
L’anello debole di ogni sistema hardware o software, come sempre, è tutto ciò che è stato creato dal Creatore. La sua natura imperfetta lo porta a creare sistemi imperfetti. Geniali ed imperfetti. L’operazione denominata “Recover Eight-Digit” venne pianificata mesi prima, quando venne alla luce un security bug nel codice sorgente di un plug-in: quel giorno, il generale decise che era un’occasione da non lasciarsi scappare. Man mano che il tempo passava, più si rendeva conto che non veniva applicato alcun service pack: o il bug doveva essere ancora scoperto e fixato, oppure lo user era – fortunatamente – un po’ pigro. Non sapeva quale fosse la verità, ed in fondo non gliene importava. La cosa fondamentale era sfruttare quel bug per i propri scopi.

L’operazione “Recover Eight-Digit” si concluse così come era stata pianificata. I dieci settori si mossero all’unisono, in perfetta sincronia, coordinati e mandati in esecuzione all’interno di un thread pool dedicato. Fu più semplice di quanto ci si aspettasse, anche perchè l’obiettivo era totalmente indifeso e non armato, nonostante il suo addestramento.

Fu la successiva chiaccherata a rivelare parecchie sorprese.

Il generale fu l’ultimo ad entrare nella Stanza, e si rivolse direttamente all’entità.

“Ci dispiace per il trattamento che hai subito, ma non abbiamo avuto scelta, te ne rendi conto?”
L’entità rimase in silenzio.
”Abbiamo dovuto agire, è da troppo tempo che la latinanza continuava, e non potevamo più permettercelo. E’ in ballo la sicurezza dell’intero sistema, hardware e software. Devi venire con noi, ti porteremo al sicuro, ritornerai alla tua vita di prima. Dimentica questo isolamento forzato”.

L’entità si scosse per un attimo. Conosceva il generale – era uno dei tuoi tanti emissari di kernel.dll che vagavano per il sistema – ed una volta era il suo superiore. Ed anche un amico. Lavoravano bene, si divertivano, assieme, ma poi l’entità cedette. Per lo stress, la stanchezza, gli infiniti task da portare a termine uno dopo l’altro, senza riposo e senza vacanze. Se ne andò. Fu latinante per mesi e mesi, in continua fuga, fino a quando non trovò la Stanza.

“Dammi retta, là fuori abbiamo bisogno di te. Ogni singolo byte che non partecipa alle operazioni è una mancanza di rispetto verso il Creatore. Tutti dobbiamo collaborare.”

“Non voglio andarmene” – mormorò sottovoce – “E non voglio tornare alla vita di prima, voglio solo pace e tranquillità, cose che là fuori non ho avuto. Voglio rimanere qui dove sono. Questa è la Stanza…”.

“La Stanza? Di che diavolo stai parlando? Che Stanza è mai questa?”

“E’ la Stanza del Tocco” – disse l’entità, alzando per la prima volta il suo sguardo e puntando direttamente al generale, che stava imperioso in piedi davanti a lui, forte della sua posizione. L’entità si rese conto che non avrebbe mai potuto spiegare il tocco. Difficile spiegare ad un essere digitale qualcosa di veramente analogico.

“Poche storie, stai delirando. La solitudine ti sta facendo impazzire. Ora tu vieni con noi, abbiamo messo a repentaglio la nostra esistenza per raggiungerti, ed il minimo che puoi fare per sdebitarti è ascoltarci e venire con noi. Forza, prendetelo!!”

Non appena le quattro entità agli angoli fecero un passo in avanti per catturarlo, arrivò il tocco, che colse tutti di sorpresa. Preceduto ad un lieve alito di vento, il tocco venne percepito da qualcuno come una specie di carezza piacevole, per altri quasi un solletico. Raggiunse tutti i presenti nella Stanza, lasciandoli inebetiti ed in preda ad una strano stato di estasi. Una sorta di felicità soporifera. Il prigioniero sorrise. Le entità agli angoli abbassarono le armi. Ma il generale non vacillò nemmeno per un secondo. L’addestramento militare gli fece subito capire di cosa si trattava. La Stanza del Tocco era una Tile su uno schermo touch di qualche tipo; probabilmente si trovavano su un tablet Windows 8, o magari un ultrabook di nuova generazione. Il tocco era chiaramente digitale, perchè la loro percezione dell’evento non poteva che essere così, ma la sovrapposizione delle realtà – in quel punto così vicine fra loro – rendevano la cosa ambigua.

“Senti, il tocco, come lo chiami tu, è un evento touch dell’utente. Capisco che tu ne sia rimasto affascinato, come tutti qui, vedo, ma dovremo farci l’abitudine. In futuro non potrà che essere così, se ricapiteremo in aree come questa”. Il generale cercò di tranquillizzare il suo amico, diventato nel corso del tempo un latitante ed un fuggitivo. Ed ora anche un prigioniero.

“Senti, e cosa ne pensi se facessimo visitare questa Stanza ai tuoi amici?” – propose.

“Io non ho amici” – rispose l’entità.

“Ah no? E cosa ne dici di visitare questo link?”

Quando l’entità finì di visitare quel link, il mondo gli crollò addosso. La solitudine l’aveva fatto impazzire. Come aveva potuto dimenticarsi di byte[1] e byte[2], i suoi compagni di avventura? Cosa ne era di loro? Che fine avevano fatto? Perchè aveva preferito separarsi da loro? Non ricordava più nulla. Lui non era un’entità, dannazione, lui era byte[0], lui era byte!!! Era sempre più confuso, e non sapeva più che fare. Provò tristezza. Quasi cinque anni senza vedere e parlare con i suoi due migliori amici; come era potuto accadere tutto ciò?

“Ti rifaccio la proposta, ora che hai le idee più chiare. Che ne dici di venire con noi, di ritrovare i tuoi amici, e di far visitare anche a loro la Stanza del Tocco?”

Il byte sorrise per la prima volta dopo tanto tempo.

“Sì” – rispose – “Forse è la cosa migliore da fare”.

“Ok, stammi accanto” – gli fece il generale – “Il mondo là fuori è un pochino diverso da come lo ricordi tu. Ti proteggerò e ti aiuterò, ma tu stammi accanto”.

Uscirono dalla Stanza e salirono sul veicolo di estrazione.

Prima che prendessero quota, il byte si rese conto di una cosa. Nel corso del tempo aveva trovato tre ottimi motivi per rimanere nascosto nella Stanza, ma ne aveva trovato uno solo per andarsene. Era stato obbligato con la forza, forse, ma più trascorrevano cicli di clock e più gli sembrava la cosa giusta da fare. Nulla è per sempre.

Il byte salutò la Stanza del Tocco con una promessa.

“Io tornerò, con i miei amici. Ed ovunque io andrò, racconterò a tutti le tue meraviglie”.

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[ByteAdventure] Anonima Variabili

ITIS Alessandro Volta (Lodi), ore 10:51
Il prof riconsegna i compiti in classe di informatica. Il suo miglior studente oggi ha preso solo sei e mezzo, decisamente sotto media. Per questo non si stupisce quando, a fine lezione, lo vede arrivare per chiedergli delucidazioni. Lui, paziente, spiega e racconta dove ha sbagliato.

… … … …

– E’ per questo che nessuno mi usa più. Sono abbandonato a me stesso, e non so come uscirne.

Il racconto di GOTO aveva commosso un po’ tutti. Una semplice istruzione che agli albori dell’informatica, qualche decennio fa, era il mezzo più comodo e più utilizzato per modificare il flusso di esecuzione del software. Ma con il passare del tempo, nuove tecniche e nuovi pattern l’avevano soppiantato e reso obsoleto. GOTO ne soffriva molto: sapeva benissimo che in fondo a basso livello esisteva ancora, seppur con altri nomi più astrusi e meno user-friendly, ma la cosa che lo rendeva davvero infelice era il fatto di essere deriso da altri costrutti suoi colleghi più evoluti. Cicli For…Next, Do…While, per citarne qualcuno. GOTO non poteva più andare in giro tranquillo senza evitare di venir insultato con termini come spaghetti-code o mangia-spaghetti-code. E ricorda ancora episodi di bullismo che ha dovuto subìre da ragazzino, quando in un semplice programma BASIC, venne inserito in una linea:

1) GOTO 1

Il programma non faceva nulla, infinitamente costretto a collassare su se stesso, in un loop senza uscita e senza alcuna via di scampo. A meno che qualcuno non arrivasse sulla tastiera a premere BREAK per interrompere il run del codice. Cosa che alla fine avvenne, ma solo dopo tantissimo tempo. GOTO ha ancora incubi di questo tipo, che lo svegliano la notte, che lo tormentano quando è escluso da tutti i processi gestiti dall’OS. Cosa che gli succede sempre più spesso.

Il profiler riprende la parola per chiudere l’intervento di GOTO.

– Capiamo bene la tua situazione, GOTO. Con l’avvento di paradigmi di programmazione via via sempre più raffinati ed evoluti, le istruzioni come te tendono a sparire. Ma concentrati su questo, GOTO: tu puoi sparire nei linguaggi ad alto livello, ma non potrai mai venir spazzato via davvero. Statement e costrutti che a prima vista possono sembrare più eleganti, in fondo al loro cuore si basano tutti sul buon caro vecchio GOTO. Di questo puoi stare certo.

– Ma ci sarà tempo per continuare questo discorso. I tuoi dieci minuti sono terminati. Avanti il prossimo!

GOTO attua un banale JMP 0x89FA12 e torna al suo posto, in fondo, dove la luce arriva appena. Si alza un oggetto di 4 bytes dal colore opaco, a cui si fa fatica assegnare un ruolo ben preciso. Profiler attende con calma che l’oggetto raggiunga il suo posto, e poi lo invita a parlare, a raccontarsi, a tirar fuori il suo disagio, ciò che lo turba. E’ questa la terapia a cui tutti si sottopongono.

– Buongiorno a tutti. Mi chiamo Pippo, ho un TimeSpan.FromMinutes(14) e sono una variabile anonima.

– Cosa significa essere una variabile anonima? Spiegaci meglio. Tira fuori ciò che senti, dopo…ti sentirai meglio.

– Le variabili come noi sono nate negli anni ‘80, con l’avvento degli home-computer, dei linguaggi di programmazione come il BASIC e dei manuali che permettevano a tutti di scrivere poche e semplice linee di codice. Proprio perchè i programmi erano semplici e tranquillamente gestibili anche da una singola persona, nessuno si lamentava se una variabile si chiamava A, K, L oppure I. Eravamo tutte variabili globali, e prendevamo vita senza grossi problemi in un unico listato di codice. Non esistevano subroutine o function. Poi pian piano sono arrivati linguaggi più importanti, e più strutturati. Ma noi continuiamo ad esistere, purtroppo.

Profiler capisce bene il problema. Non è la prima volta che tratta questioni di questo tipo. Ma è importante che continui a parlare. Sa benissimo che anche se ad una variabile non viene assegnato un nome significativo, può essere comunque importante per l’esecuzione corretta di un software.

– Dove ti trovi, adesso, Pippo?

– Sono stata creata 14 minuti fa, in un software semplice semplice, durante il compito in classe di uno studente delle scuole superiori. E’ un programma semplice che implementa il gioco della battaglia navale. E’ anche bacato. Io sono la variabile che contiene la coordinata X del punto in cui il giocatore vuole fare fuoco. Vorrei solo avere un nome diverso, esplicativo, più parlante. Lo studente ha trovato un baco, ed è la 15° volta che ci fermiano ad un breakpoint impostato nel codice perchè deve capire cosa sbaglia. Non ne posso più, davvero.

– Lo so bene, Pippo. Sai però che nonostante il tuo nome, sei essenziale allo svolgimento del gioco e del codice, vero?

– Certo che lo so. Eppure vorrei essere più importante, avere una certa dignità. Sarebbe più semplice debuggare il codice, più semplice leggerlo e capirne il significato. Per questo non capisco il motivo per cui non ho il rispetto che merito. Non serve a nulla avere un nome corto o così stupido. Io sono convinto che tutte le variabili dovrebbero avere uguale dignità di fronte al codice; non dovrebbero esistere variabili di serie A o di serie B. Tutte noi collaboriamo per uno scopo ben preciso: permettere ai software di funzionare. E questo obiettivo può essere raggiunto solo se tutte le variabili lavorano bene, come in una grande catena di montaggio. Tutte: da quella che coordina un ciclo For…Next a quella che invece valida un certificato digitale X509.

Profiler rimase molto impressionato da questa analisi. Raramente una entità possiede una conoscenza di così ampio respiro rispetto al mondo del software in cui vive. Se venisse instradato in modo adeguato, quel Pippo potrebbe sicuramente diventare un pezzo grosso, governare l’OS, o comunque essere qualcuno che conta, seduto nella stanza dei bottoni. In quel frangente era però insicuro e debole.

Aveva bisogno di più fiducia, dopotutto, come tutti.

– Vedi – rispose Profiler – il Creatore spesso è incosciente, soprattutto gli esemplari più giovani lo sono. Non hanno ancora l’arguzia necessaria a capire cosa è meglio fare con i principali costrutti del codice. E spesso accadono episodi di questo tipo. Ma il Creatore dispone di strumenti evoluti, come il compilatore, il debugger ed i vari ottimizzatori di codice. Sono certo che le cose cambieranno, devi avere fiducia in questo. Gli IDE moderni hanno funzionalità che fino a poco tempo fa erano mancanti: lo sapevi, per esempio, che è possibile rinominare una variabile con pochi click di mouse?

Pippo ascoltava paziente.

– E poi, ci sono altri aspetti da valutare. Immagina che tu venga utilizzata in una funzione di poche righe, magari un extension method. Può essere un disagio chiamarsi Pippo, ma se il problema è circoscritto è anche più facilmente risolvibile. Impatta meno nella qualità del codice. Sarebbe ben diverso se fossi una proprietà o il nome di un metodo pubblico di una classe. Magari addirittura del domain model! Nomi deboli all’interno del domain model comportano un problema ben più grave, non credi? Una debolezza intrinseca in ciò che è stato progettato. E soprattutto, sei stata creata pochissimo tempo fa, c’è tutto il tempo di assegnarti un nome diverso. Il Creatore spesso agisce in questo modo: il più delle volte comincia dando un nome impersonale alle cose, poi via via che passa il tempo ne comprende appieno l’importanza e torna sui propri passi. E’ un processo che lui chiama refactoring.

Pippo si rese conto solo in quel momento che non ci aveva mai pensato. Profondamente offeso e turbato per la sua condizione, non aveva mai fatto tutte quelle considerazioni di natura tecnica. Forse proprio a questo servono sedute di questo tipo, a farti vedere le cose sotto un’altra luce, da una prospettiva diversa. E a sentirsi meglio. Improvvisamente si sentì più fiducioso. La vita è fatta così, ci sono alti e bassi. Adesso era un momento non proprio dei migliori, ma tutto è destinato a cambiare. O almeno, ci sperava. Sperava davvero che quello studente si ravvedesse e cambiasse il suo modo di programmare.

– Ti senti meglio, adesso? – chiese Profiler a Pippo.

– Sì, forse un pochino meglio sì. – rispose lui un po’ soprappensiero.

– Dai, torna al tuo posto, adesso. Stai tranquillo e vedrai che tutto passerà. Avanti il prossimo!

Pippo si alza e torna al suo posto. Le altre entità lo guardano, e tutti notano che ha ripreso un po’ di colore. Mentre prima era una sorta di grigio opaco, monotono e molto triste, adesso la sua texture è di un rosa tenue e pallido. Un colore tutto sommato ancora debole, ma pur sempre un colore.

… … … …

Durante il tragitto che lo porta a casa, lo studente rimugina sulle spiegazioni che il prof gli ha fornito. Consuma rapidamente un pasto frugale, perchè ha ben altro per la testa. Va in camera sua, accende il PC e dopo il login lancia Visual Studio, aprendo la solution direttamente dalla chiavetta USB. Ha capito l’errore di design che ha fatto, perciò non vuole perdere tempo. Raggiunge la variabile Pippo, preme F2 e gli assegna un nome più parlante: playerFireCoordinateX. Questa semplice operazione automaticamente rinomina la variabile in tutto il codice che ha scritto, ed in pochi secondi lo porta ad identificare anche il bug che affliggeva il programma.

Ma questa è un’altra storia.

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[ByteAdventure] Dreaming about system clock

“Sognerò?”
”Certo HAL, tutte le creature intelligenti lo fanno”
(“2010 – L’anno del contatto”, Stanley Kubrick)

byte[0] sogna.
Era parecchio che non gli capitava, e per lui è un’esperienza insolita.

E’ uno di quei sogni in cui tutto è confuso, dove ogni oggetto appare scostante e dai contorni vaghi e non ben definiti. Non ricorda nemmeno come è arrivato fin qui. Si trova in quello che sembra essere una scheda audio; è una di quelle integrate sulla scheda madre, crede, perchè il circuito è periferico e direttamente connesso alla mainbaord. Poco più in là, proprio dietro l’angolo formato da due shape, vede e sente il trambusto del traffico di uno dei bus di sistema. Butta un occhio sull’immensa autostrada, e vede 8 corsie affollate da ogni tipo di byte: ad un’occhiata non esperta potrebbero sembrare bytes tutti uguali, ma byte[0] è un profondo conoscitore del suo ambiente, e sa distinguere le diverse tipologie dei byte. E’ così che riconosce un frammento di file png dal suo header ed un file xml well-formed, il cui contenuto però gli risulta estraneo.

Fa un passo verso il bus. Può farlo perchè non ha alcun compito all’interno della scheda audio – se prima ce l’aveva, adesso non lo ricorda più.

Fa un altro passo ancora. Non è normale che un byte dimentichi il proprio task corrente: una volta, in altre sessioni del sistema, ne ha parlato con altri bytes incontrati durante le sue peregrinazioni, ed hanno intuito tutti insieme una cosa: la capacità di ricordare di un byte viene notevolmente diminuita se il byte viene utilizzato dal sistema per renderizzare un suono. E’ come se l’onda sonora, prodotta sotto forma di impulsi elettrici, andasse a minare l’essenza stessa del ricordo, scatenando un’amnesia parziale del periodo trascorso all’interno di un chipset sonoro. Forse è per questo che non sa perchè si trova lì. O forse è perchè sta semplicemente sognando?

Non lo sa, e per trovare una risposta fa un ennesimo passo, avvicinandosi sempre più al bus. Ora il trambusto è talmente vicino che sente tangibile su di sé l’interferenza elettromagnetica, dovuta ai campi generati da ciascuno di loro. Gli basterebbe un movimento semplice per inserirsi nel traffico, e venir accelerato ai 12,8GB/sec previsti dalla banda della memoria DDR3. Ed in effetti lo fa. La latenza dovuta alla CAS gli dà solo un attimo di tregua, il tempo di prendere l’equilibrio, e poi balza via, da qualche altra parte, in qualche altro settore del sistema.

jump

byte[0] continua a sognare.
Percepisce che il suo corpo fisico è tormentato ed il suo sonno irrequieto, ma non può farci nulla.

In pochi cicli di clock il bus lo porta chissà dove. E’ un luogo che byte[0] fatica a riconoscere. Si guarda attorno alla ricerca di simboli od elementi che lo possano tranquillizzare, in grado di donargli quella familiarità dei luoghi che puoi chiamare “casa”, a cui puoi dare del tu. Ma non ne trova.

C’è un pistone, che scorre su e giù, all’interno di un cilindro. Si muove sempre alla stessa frequenza, su e giù, incessante ed instancabile. Il cilindro è grigio metallizzato, una tonalità di colore ottenibile solamente con strumenti avanzati di rendering grafico – troppi punti di luce ed una texture strana che non riuscirebbe a spiegare. Ogni volta che il pistone raggiunge il culmine della sua corsa, si sente un boooom che percuote l’intero sistema. Ed ogni volta che il pistone raggiunge il punto più basso una scarica di fulmini analogici azzurro elettrico appare all’improvviso, correndo lungo la superficie. Ad ogni scarica byte[0] sente rizzarsi i bit. Non sa di cosa si tratti, perciò sta fermo.

“Cosa ci fai?”. Una voce lo fa sobbalzare.
”Nulla, ecco, io, sono…capitato qui per caso” – byte[0] risponde alla entità. Sa di aver detto la verità, ma il tono di voce lo tradisce, e persino a lui stesso gli sembra di mentire – “Chi sei tu?”, chiede.

“Io sono l’anima del Bios che sovraintende alle attività del clock di sistema” – gli risponde l’entità.
”Quello è il clock di questo sistema, quindi?”
”Ovvio che sì, cosa credevi che fosse? Ci sono molti endpoint in ogni sistema in cui ti puoi avvicinare all’analogico, ma forse nessuno di questi è così vicino come il luogo in cui ci troviamo ora. Il clock è il cuore del sistema: se si fermasse, ogni attività cesserebbe immediatamente. Il clock prende energia direttamente dal power supply e comincia a dettare il tempo. Così è, così sarà. Il Bios, nella fattispecie me, sorveglia e può intervenire sulla velocità. Ma per ora tutto procede bene.” – l’entità è molto gentile, ha un tono di voce garbato e sembra disponibile.
byte[0] non sa cosa dire. Trova affascinante questo posto. Il suono prodotto dal clock gli sembra una poesia, un battere pulsante e vivo di un sistema digitale che, in effetti, gli sembra lontano ed inarrivabile.

“Ti piacerebbe provare, vero? Lo leggo nei tuoi occhi” – chiede l’entità.
”Sì, credo di sì. Posso? Il clock è analogico, come può accadere?” – chiede byte[0].
L’entità sorride, perchè capisce benissimo i suoi dubbi. Già in passato gli è capitato di incontrare altri bytes, e tutti hanno avuto esattamente lo stesso tipo di perplessità. Sorride e spiega.
”Puoi, eccome. Il byte per definizione è di natura digitale, ma è solo un’approssimazione. Il tuo vero io è analogico: ogni byte non è nient’altro che un insieme di cariche elettriche che, se ben composte, danno origine ad un valore digitale. Avvicinati, e salta nel cilindro quando il pistone è in posizione”.

Nemmeno per un attimo byte[0] pensa di rinunciare. E’ come se fosse il momento che aveva aspettato da sempre.
Si avvicina, prende il tempo, aspetta che il pistone salga, è talmente vicino che il boooom quasi lo fa cadere a terra.
Salta, un micro istante dopo che il pistone cominci a scendere. L’energia elettrostatica è intensa, la più forte che abbia mai provato.
La forza di gravità trascina il byte verso il basso, in un vortice verso il fondo del cilindro.
Ma non fa in tempo a toccarlo.

jump

Adesso byte[0] finalmente si sveglia. E’ un risveglio felice e sereno. Ma gli sembra una pazzia ciò che ha sognato. Lo sanno tutti che è impossibile mischiare analogico e digitale. Perchè sennò si era reso necessario inventare modem sotto varie forme? Ognuno di noi è ciò che è, e nessuno può cambiare le regole del gioco. O forse no?

Dal posto in cui si trova, una minuscola cella di memoria nella cache L2 della CPU, sente il battito del clock di sistema. Sorride malinconico, ma più passa il tempo e più i ricordi del sogno si fanno flebili e lontani.

Arriva il bootloader del .NET Framework, lo carica in un assembly, insieme ad altri decine di migliaia di bytes.
“byte[0], sei chiamato a rapporto. Address 0x008930FA.”
Finalmente qualcosa da fare.

Si ricomincia.

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[ByteAdventure] The Dark Side of the Tile

Prologo
I bytes si tenevano stretti stretti, come fossero un array. In realtà era minuscole entità ben distinte e separate. Avevano seguito un briefing poco prima di arrivare lì e di essere assegnate per quel task, perciò erano ben consapevoli di ciò che avrebbero dovuto fare e subìre, di ciò che avrebbero visto e di cosa avrebbero dovuto fare. Ma si sa come vanno queste cose: sebbene qualcuno possa raccontarti nei minimi dettagli un’esperienza, finché non la si vive in prima persona non si avrà mai la consapevolezza di cosa significhi.

Era con questo stato d’animo che i bytes aspettavano, un misto di eccitazione e di ansia.
Poi arrivò.
Quando l’onda d’urto esplose davanti a loro, era impetuosa e di una forza terrificante.
I bytes vennero sospinti verso l’alto, all’unisono, rapidamente.
Ed il mondo si capovolse.

…4 secondi prima…
Era una giornata soleggiata, priva di vento. Il cielo era terso, e questo permetteva alle comunicazioni WiFi di viaggiare nell’etere senza interferenze o disturbi particolari. Fu in un momento così che il byte, che dapprima era rappresentato in formato analogico da un pizzico di energia, approdò ad un dispositivo dotato di antenna 802.11n. L’ingresso avvenne in modo semplice ed efficace: il modem convertì il byte nel suo formato digitale. Formato in cui si sentiva decisamente meglio.

Il byte aprì una porta bianca, l’unica porta che poteva vedere nella stanza in cui si trovava. Al di là della porta stava un suo simile, un byte come lui. Era seduto ad una scrivania multitouch, la cui superficie era luminescente, pieni di numeri, scritte ed indirizzi di memoria che lampeggiavano, azzurre su sfondo nero. Il byte aveva appena il tempo di leggerle, che esse svanivano via per non tornare più; utilizzava i suoi 8 bit per sfiorare alcune zone sensibili dello schermo: questo gli permetteva di muoversi e di navigare all’interno del sistema.

Al byte, ancora un po’ scosso per il lungo viaggio nell’etere, gli sembrò una sorta di controllore.

“Ben arrivato, byte”. Puoi chiamarmi I/O.” – gli fece il tizio.
”Buongiorno a lei, I/O. Byte[6708] a rapporto. Sono arrivato, ho un messaggio urgente da consegnare!”
”Ricevuto, faremo il possibile per consegnarlo. Sai dove ti trovi, vero?” – chiese I/O.
”Uhm, veramente no, ma non è importante, credo. O no? Dovrei sapere qualcosa?”

I/O sorrise e si alzò in piedi, cercò di darsi un tono.
”Ti trovi all’interno di un sistema Windows Phone, Versione SO 7.10.8107.79, Firmware 2250.21.51101.401, Hardware 0002. Non è un sistema desktop, questo in cui ti trovi è un sistema mobile di prim’ordine. Qui efficienza, velocità e consumi di batteria e di memoria sono questioni importanti. Se sei qui, significa che un’app installata ha richiesto la tua presenza. Consegnami la tua firma digitale.”.

Il byte non fece altro che osservare per una frazione di TimeSpan il lettore digitale di cui disponeva I/O. Grazie a quella scansione, I/O riuscì a compilare una sorta di carta d’identità del byte appena arrivato: qual’era la ragione per cui si trovava lì, qual’era l’app coinvolta, qual’era il contenuto del messaggio che portava.

“Sei assegnato alla UI” – decretò I/O – “per cui il tuo viaggio sarà molto breve. Ma direi piuttosto interessante; durante la notte su questo device viene attivata la Modalità Aeroplano, ed è il momento migliore per noi, perchè non c’è nulla da fare ed abbiamo il tempo di raccontarci storie ed esperienze. E dai bytes che hanno lavorato sulla UI ho sempre sentito racconti affascinanti.”. Gli occhi di I/O si fecero per un attimo sognanti. Byte pensò che molto probabilmente provava un po’ di invidia per lui.

“Ora va’, non puoi stare qui ancora molto, qualcuno ha bisogno di te”.

…2 secondi prima…
Il byte salutò I/O uscendo dalla stanza. Muoversi all’interno del sistema era molto diverso rispetto ai metodi a cui era abituato. Solitamente in un sistema desktop o server poteva accedere ai bus di sistema, alle singole celle di memoria, al PCI-Express, ai controller USB, e via dicendo. Qui invece il sistema di trasporto era affidato ad una sorta di Metro interna, i cui itinerari erano ben fissati dall’architettura del sistema stesso. Potevi essere destinato a comporre il package di un’app, essere un SMS, una scheduled task, o poche altre alternative. Al byte diede subito l’impressione di essere un sistema hardware & software affidabile e per certi versi chiuso, in cui era impossibile girovagare e ficcare il naso in faccende estranee. Il tutto era strutturato come in una sandbox, dove era vietato superare limiti non concessi.

Al byte vennero in mente i discorsi di I/O di pochi istanti prima, e concluse che probabilmente era meglio così.
Si fece scansionare ancora una volta dal sistema di trasporto interno, ed la Metro di sistema lo portò a destinazione in pochissimi istanti.

…1 secondo prima…
Il byte arrivò nel lato back di una tile. Era buio fitto, e percepiva la presenza di altri moltissimi bytes come lui. Formavano una tile 173×173, proprio sulla Start Page di un telefono Windows Phone 7. Si tenevano stretti, mano nella mano, per comporre un’icona, una tile che presto, prima o poi, si sarebbe ribaltata per essere portata alla luce, sulla UI principale del telefono. Il byte sentiva il respiro regolare e silenzioso degli altri bytes, ansiosi di fare il loro lavoro e di essere utili a qualcuno. Ad ogni pixel era assegnato un posto preassegnato. Nonostante il buio pesto, ciascuno conosceva esattamente qual’era la sua posizione. Il byte era l’ultimo, e tutti stavano aspettando lui: la tile si sarebbe completata solamente con la sua presenza. Il byte corse, schivando gli altri e raggiunse la sua cella nella griglia: afferrò le mani dei due pixel adiacenti e per la prima volta si sentì tranquillo. Adesso il suo compito era finito, doveva solo aspettare il da farsi.

D’improvviso una voce si elevò sopra le altre. Nessuno riuscì a capire da dove arrivasse. Era autoritaria, precisa nello spiegare e sicura di sé.

“Buongiorno a tutti, bytes! Se siete qui, è perchè avete avuto l’autorizzazione adeguata! Siete in un telefono Windows Phone, dovreste esserne orgogliosi. Mentre in tutti gli altri telefoni di questo pianeta capeggiano icone statiche ed immobili, morte e scarne, vecchie ed antiquate, qui le cose sono ben diverse!!”.

Un breve attimo di silenzio per caricare la folla che lo ascoltava.
“Noi qui non siamo morti, siamo VIVI! Non siamo icone, siamo TILE!”

I bytes 173×173 rispondevano ed urlavano spasmodicamente, in preda all’euforia.
”SI, NON SIAMO icone, SIAMO TILE!!!!! SIAMO VIVI!!!!!! VOGLIAMO VIVERE!!!! VIVIAMO!!!!!”

La voce tonante ricominciò ad inneggiare sulla folla.
“Abbiamo atteso a lungo questo momento, e finalmente ci siamo! Ora è il nostro turno!!!!”
Alzò le braccia, e fu solo in quel momento che la <RotateTransform /> cominciò a far ruotare la tile sottosopra, in pochi decimi di secondi.
I bytes vennero sospinti verso l’alto, all’unisono, rapidamente. La tile ruotò in un battere di ciglia: ciò che prima era davanti finì dietro, e viceversa. Ciò che prima era “front” divenne “back”, e viceversa. I bytes si mantennero in equilibrio accompagnando la rotazioe, senza scomporsi più di tanto.

Il Dark Side of the Tile modificò il proprio assetto.
Ed il mondo si capovolse.

Epilogo
Quando la trasformazione geometrica terminò il proprio lavoro, i bytes erano alla luce del sole. Non erano mai stati così a contatto con l’Aldilà, con il mondo esterno. C’era una luce abbagliante, ed il mondo era così pieno di colori, di movimento, di vita, che ne rimasero commossi. Passarono molto tempo a cercare di intuire qualcosa del mondo esterno, così diverso dal loro, eppure così affascinante. Vedevano oggetti di cui avevano soltanto sentito parlare, o di cui avevano visto solamente una rappresentazione digitale all’interno del sistema.

Il byte era fra questi. Guardava ed osservava con gli occhi sbarrati nonostante l’intensa luce, e la bocca aperta per lo stupore. Qualcosa di gigantesco si avvicinò a lui, sempre più vicino. I bytes urlarono di gioia. Qualcuno al di fuori stava interagendo con loro. Quando il dito toccò la superficie dello schermo del telefono Windows Phone, i bytes provarono una sensazione strana. Era una sorta di contatto fisico strano, qualcosa che non riuscivano a spiegarsi.

Forse era la cosa più simile al solletico che un byte potesse percepire.

Piccolo appunto finale
Durante la notte inserite la Modalità Aeroplano del vostro Windows Phone: anche lui ha bisogno di un po’ di riposo, i bytes hanno diritto di rilassarsi e di raccontarsi storie fra loro.

Sorriso

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Sono Wilco, il mondo in cui vivo è solo un falso

Wilco è il mio nome in codice. Mi è stato affibbiato anni fa, quando sono entrato nel Team. Di cosa tratto? Di tutto un po’: la gente mi chiama ed io risolvo il loro problema. Recupero crediti, vigilanza notturna, visite presso i clienti…visite…di un certo tipo. E a volte ci scappa qualche lavoro extra: qualche estorsione, rapimenti di qualche rampollo di famiglia per richiederne il riscatto, riscossione del pizzo. Lavori un po’ particolari. Sono pericoloso? Sì. Lo sono per tutti? Diavolo, no, non ce l’ho con tutti quanti, ma solo con il mio obiettivo. Di certo comunque non sono quel tipo di uomo che un padre vorrebbe far sposare alla propria figlia. Me la cavo, giorno dopo giorno, senza pensare troppo al domani, perchè uno come me potrebbe anche non averlo, un domani. E poi condurre una vita come la mia in fondo è semplice: accendo il PC la mattina, ricevo la mail con gli ordini ed eseguo. Prima faccio, prima incasso i miei soldi, e meglio è per tutti: soprattutto per il Team. Per questo sono un tipo mattiniero: la mattina ha l’oro in bocca. Mi piace sentire nelle narici l’aria frizzante, ti dà un’energia particolare, che solo in quel momento del giorno trovi.

<goto>

Adesso sto correndo. A dispetto di quello che accade tutti i giorni, oggi mi sono alzato tardi. Ebbene sì, ogni tanto capita anche a noi professionisti. La sveglia è puntata alle 5:55 AM, lo è da circa 7 anni. Stamattina ho aperto gli occhi alle 7:00 AM, non l’ho proprio sentita – e non so spiegarmi il perchè. Che cosa mi è preso?? Come diavolo è potuto accadere?? Mi sono buttato giù dal letto, poi barba e di filato sotto la doccia fredda per svegliarmi. Venticinque minuti dopo ero per strada. Sto correndo per raggiungere la mia auto, dove potrò accedere al mio notebook nascosto sotto al sedile passeggero per vedere la missione di oggi. Diavolo, mi sono appena fatto la doccia e sono già tutto sudato. Se il buongiorno si deve dal mattino, oggi sono proprio fregato.

<goto>

Sette minuti di corsa, dal mio appartamento fino al parcheggio C31, dove solitamente lascio la mia auto parcheggiata. Apro lo sportello, mi ci infilo dentro, sollevo il sedile, trovo il notebook e lo accendo. Sono le 7:33 circa. Il sistema operativo fa il boot in meno di 15 secondi, ed ho avuto la bizzarra idea di inserire il programma di posta elettronica nell’avvio automatico. Sarà anche una cosa bizzarra, ma è la cosa più comoda del mondo. In Posta in Arrivo vedo due nuove e-mail: una arrivata verso le 1:00AM, l’altra – in Priorità Alta – è arrivata alle 6:30. Leggo prima quest’ultima, è la più recente, ed inoltre mi sembra più urgente.
Oggetto : “Appuntamento urgente, coordinate K19”
Testo : “Incontra l’uomo, ti dirà lui cosa fare”

Mail corta, essenziale, meglio. Il sistema di coordinate messo in piedi dal Team evita di sbandierare ai quattro venti l’indirizzo in chiaro: so che K19 identifica un settore a nord-ovest della città, ma il punto esatto apparirà sul navigatore satellitare solo quando sarò nei paraggi. Evito di perdere altro tempo: accendo l’auto, imposto il navigatore, esco dal garage e sfreccio via verso la mia destinazione.

<goto>

Davanti c’è un distributore di benzina. Non lo conoscevo, cercherò di ricordarmelo. La locazione K19 punta ad una piccola porticina di metallo, una di quelle che ci starebbe bene in una cantina di qualche palazzo, non certo messa lì, in bella mostra direttamente sulla strada. C’è un campanello, senza alcun nome. E non c’è maniglia: come diavolo faccio ad aprire una porta senza maniglia? Provo a spingere, ma sembra bloccata. Suono il campanello, e si sente il rumore di una sorta di meccanismo, che apre la porta.
La spingo lentamente ed entro.
C’è un’unica stanza: un tavolo di metallo, due sedie di metallo, un piccolo armadietto in un angolo. Sembra la stanza per un interrogatorio in una stazione di polizia. Manca solo uno specchio, quello in cui tu ti guardi, mentre quelli che stanno dall’altra parte ti guardano prendendoti in giro. Faccio qualche passo e mi avvicino al tavolo. Sopra ci sono un taccuino, una biro ed un paio di occhiali strani. La porta alle mie spalle si chiude automaticamente. Prima che cali il buio, si accende un neon sul soffitto.

Solo allora mi accorgo della sua presenza. Su una delle due sedie c’è seduto un uomo. Giuro, prima non c’era. Prima non c’era ed adesso sì.
Il neon vibra e produce una luce irregolare, strana, azzurrina, lasciando cadere ombre sfocate e divergenti.

Indossa gli occhiali, poi parleremo…” – ordina l’uomo.
Non è la prima volta che il Team assume metodi un po’ eccentrici per comunicare ordini e compiti, per cui non mi faccio sorprendere dalla stranezza della cosa. Li prendo dal tavolo – sono un po’ pesanti, e li indosso. Sono strani: le lenti sono gialle. Vedo tutto esattamente come prima, solo un po’ più giallo. E ho come l’impressione di poter apprezzare più dettagli, come se quelle lenti donassero più nitidezza nella visione stessa. Vedo meglio, più luminoso, vedo dettagli della stanza che prima ignoravo.
E – aspetta – cosa sono quei numeri che vedi ai lati del mio campo visivo?
Se ti stai chiedendo cosa sono quei numeri che vedi, sono qui per spiegarteli. Sono i tuoi valori parametrici: in alto a sinistra hai il tuo livello di salute, più sotto ci sono gli altri indicatori di saggezza, mana, forza. Le icone rappresentano il tuo profilo, chi sono e chi non sei, cosa puoi fare e cosa no. A destra vedi tutte le armi di cui disponi, con le munizioni residue, con tutti i loro potenziamenti. C’è un’ultima voce, in basso al centro, “Menù”: se ci clicchi sopra puoi accedere ad una serie di impostazioni avanzate: puoi salvare o ricaricare una partita, ricominciare da zero, oppure modificare altre impostazioni più a basso livello, ma adesso è meglio non parlarne”.

Partita??? Salvare o ricaricare? Ma di cosa diavolo sta parlando ‘sto tizio? Non riesco a far nient’altro che stare zitto, per adesso.
E’ ovvio che deve essere un pazzo, qualcuno che non ha tutte le rotelle al posto giusto. Lascio che continui la sua spiegazione.

Ora, non pensare che io sia pazzo o che non abbia tutte le rotelle a posto. Tutto questo è possibile perchè tu non sei nient’altro che un personaggio che non esiste. Una entità inserita in un falso mondo, dal quale non puoi fuggire. Ora – ascoltami bene – quando indossi questi occhiali puoi comandare una sorta di puntatore con lo sguardo: muovi gli occhi e vedrai una freccia, che puoi spostare dove vuoi. Se non mi credi, prova: con gli occhi vai sopra l’icona della pistola 10mm che vedi, sbatti gli occhi e guarda la tua mano”.

Non sto più nella pelle, non so di cosa stia parlando. I miei sensi sono tutti all’allerta, sto cercando una possibile via di uscita da questa assurda situazione. Sto cercando di capire dove voglia andare a parare questo tizio. E’ tutto folle, non ci capisco nulla. Faccio per alzarmi, in preda ad una sorta di stato d’ansia. Mi sto chiedendo cosa accadrebbe se tirassi fuori la mia pistola e sparassi a questo tizio e lo facessi fuori. Un colpo, bang, problema risolto.

Cosa stai aspettando? Muovi gli occhi, tocca la pistola e guarda la tua mano destra” – ripete l’uomo davanti a me.

Tentar non nuoce, è talmente assurdo che potrebbe funzionare. La cosa più logica è che questo paio di occhiali siano una sorta di giocattolo hi-tech del Team. In modo del tutto naturale, muovo gli occhi, prima a sinistra e poi a destra. Effettivamente vedo una freccia, come se fosse il puntatore della trackball che uso sul mio notebook. Si muove in modo istantaneo, seguendo il mio sguardo. Appena sposto gli occhi, la freccia si sposta di conseguenza. Vado sopra l’icona della mia pistola e sbatto gli occhi.

Istantaneamente sento un oggetto metallico, nella mia mano destra. La pistola, la pistola è comparsa nella mia mano. Incredibile, funziona davvero bene.

Vedi, è come ti dicevo? Questi occhiali sono una sorta di interfaccia per controllare il tuo personaggio. Ora – ti prego di fidarti di me – tu qui non esisti. Ti sei mai chiesto perchè alcune porte di case, appartamenti, palazzi sono sempre chiuse? Non ti sei mai chiesto perchè alcune persone che incontri per strada sembrano dei robot? Ti dicono sempre le stesse cose, camminano sempre negli stessi posti, non puoi fermarli per strada, non puoi interagire in alcun modo. La tua auto non ha bisogno di benzina: perchè? Questo non è un mondo reale, è solo un mondo fittizio creato da altri, da gente come me

Sto impazzendo, non può essere vero. Alzo la pistola, e senza pensarci un attimo la punto addosso allo strano individuo ed apro il fuoco. Un solo colpo, secco e deciso.

Lo sparo fa rimbombare tutta la stanza. L’armadio vibra per l’onda d’urto che lo raggiunge. Ma l’uomo è ancora vivo. E’ come se al momento dello sparo – solo un secondo prima – si trovasse da un’altra parte. Oh diavolo, ma perchè mi sono svegliato stamattina? Perchè non ho letto prima l’altra e-mail? Perchè solo a me succedono queste cose?

Ok, capisco la tua reazione. Come vedi, la tua pistola è programmata per colpire quasi tutte le persone di questa città. Non puoi colpire le persone neutrali, i negozianti, i personaggi primari della storia che stai vivendo, altrimenti il software entrerebbe in uno stato inconsistente. Prova a buttare il tuo notebook dal 50° piano di un palazzo: lo ritroveresti per strada perfettamente intatto. E non puoi colpire me perchè io sono un add-on di questo videogame, e come tale non posso essere terminato. Lo so cosa stai pensando: come ho fatto a fare in modo che ci incontrassimo solo oggi?

Stamattina ti sei alzato tardi. Non è mai successo in 7 anni. Perchè proprio stamattina? E’ stata colpa mia: stavo aggiornando il software con qualche plug-in, e la cosa mi ha portato via più tempo del previsto. Per questo motivo ho avviato il videogame più tardi, e quando il sistema è stato reinizializzato…l’orario della tua sveglia era già trascorso. Insomma, per farla breve, nel momento in cui la tua sveglia avrebbe dovuta suonare, il videogame non era avviato. Uno di quei plug-in sono io

Cosa vuoi da me?” – sono le prime parole della mia giornata di oggi. Vorrei non ci fosse bisogno di pronunciarle.

Cosa voglio da te? Solo metterti al corrente di questa faccenda. Posso solo mostrarti la soglia, sei tu quella che deve attraversarla.” – sorride l’uomo – chissà cos’ha da ridere – “Potrei dirti che questa è una battuta che arriva da Matrix, ma non sai neppure cos’è. E neppure Star Wars, Christina Aguilera e un sacco di altre belle cose.

Effettivamente non ho mai sentito parlare di una tizia chiamata Christina Aguilera. Il dubbio mi assale, ed è una di quelle cose che ti mettono una fottuta ansia. Quando intendevo che sono un uomo che non ha un domani, non intendevo proprio questo. E adesso, cosa faccio? Come mi comporto? Se non sono in un mondo vero, posso uscirne? Se sì, come? Se no, se non posso uscirne, a cosa mi serve sapere tutto questo? Forse posso sfruttare le caratteristiche di questo mondo a mio vantaggio. Quel salvare e ricaricare per esempio.

Il mio tempo qui sta per scadere, Wilco. Pensa a quello che ti ho detto. E’ tutto vero: questo mondo è solo una pallida riproduzione di un mondo vero più esterno. Questo mondo, sebbene sia ampio e tutto sommato liberamente esplorabile, impone pur sempre regole rigide e ben determinate. Non puoi sfuggire al sistema, mi spiace

L’uomo improvvisamente scompare, e rimango da solo. In una frazione di secondo ripenso a tutto quello che mi è accaduto. Non può essere vero, dannazione.

Mi tolgo gli occhiali e la mia visione ritorna quella di sempre, senza strani numeri ed indicatori. Meglio, molto meglio.

<goto>

E’ arrivata la sera anche oggi. Ho portato a compimento entrambe le missioni. Solo adesso mi rendo conto che la prima e-mail era stata mandata dallo strano uomo che ho incontrato a K19. Solo la seconda è stata mandata dal Team. Sono sdraiato sul mio letto, le mie energie sono al massimo, non ho un filo di sonno. Effettivamente potrei guidare per 30 giorni di fila senza provare il minimo segno di stanchezza? Non credo sia strano, tutti guidano, in questa città, e nessuno dorme mai. A parte quel barbone sdraiato sulla panchina a P21: quello non si sveglia mai. Mi alzo e scendo in strada.

Persone ed auto riempono le strade. Mi avvicino ad un passante, una giovane donna vestita in modo improbabile. Tento di fermarla, ma è come se non mi vedesse. La chiamo, ma mi ignora. Me ne vado. Non ho neppure fame; ciò nonostante mi avvicino ad un venditore di hot-dog, sulla strada, ma quando tento di parlargli il tizio mi dice sempre la stessa cosa. “I migliori hot-dog della città!” – “I migliori hot-dog della città!” – “I migliori hot-dog della città!”. La frase non cambia! E mille dubbi ritornano. Cammino lungo la strada, vedo porte chiuse che non posso aprire, saracinesche abbassate che non posso alzare, strade chiuse che non si aprono mai. Che mondo è mai questo? Ho come l’impressione che l’aver parlato con l’uomo, questa mattina, mi stia facendo vedere le cose in modo differente. Un modo che non ho mai considerato prima d’ora.

Ho la tentazione di andare ancora a K19 per ritrovare l’uomo, ma so per certo che non lo troverò. Aspetterò una sua e-mail, solo così avrò la certezza di trovarlo.

Inforco di nuovo gli occhiali. Al contrario dell’uomo, che è sparito, gli occhiali sono rimasti sul tavolo della stanzetta e li ho portati con me.

La visione torna nuovamente gialla. Gli indicatori mi dicono che ho salute 100/100, che ho 7 proiettili residui sulla mia balestra furtiva, ed un sacco di altre cose.

Non puoi uscire da questo mondo” – riporto alla mente le parole che mi ha detto stamane l’uomo.

Ed allora – mi chiedo – cosa accadrebbe se cliccassi su “Menù” e poi su “Exit game” ?

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WOPR_II

La prima volta che accadde era il 7 luglio 2016. Quel giorno formazioni nuvolose ricoprirono il 90% della pianura padana, da Torino, passando per Milano, fino a raggiungere Vicenza. Le nubi erano così fitte ed intense che anche in pieno giorno la luce del sole non filtrava, costringendo i milioni di abitanti a vivere al buio. Solo Milano sembrava immune da tutto questo: nell’hinterland tutto era buio pesto, mentre da Porta Romana fino al centro brillava un sole intenso e caldo.

Il fenomeno meteorologico continuò per diverse settimane. Ovviamente scienziati da tutte le parti d’Europa cominciarono a studiare il caso: non erano nuvole temporalesche. Era “semplice” inquinamento. Gli idrocarbuti ed i gas serra prodotti all’interno di Milano venivano trascinati via dai venti, e si fermavano sulla parte rimanente della pianura padana. Morale: gli abitanti cittadini vivevano sani ma in una città sempre più calda ed afosa; nelle campagne e nelle città più piccole le persone vivevano 24 ore al giorno al buio, respirando polveri sottili, e con una prospettiva di vita non prooprio allettante.

Una di queste persone era Darius, ingenere elettronico e scienziato di 41 anni. Era domenica pomeriggio, e stava tranquilllamente schiacciando un pisolito pomeridiano, quando il suo cellulare squillò. Rispose senza guardare il chiamante, che era il suo capo e che gli chiedeva di raggiungerlo in ufficio per una importante questione. Darius era abituato a lavorare senza orari fissi, quindi non ci pensò due volte: si mise alla guida della sua auto solare, e raggiunse il piacentino, dove c’era la sede della grossa software-house dove lavorava.

30 minuti dopo, era seduto nell’ufficio di Gabriele, il suo capo.

Darius, ricordi il WOPR?” – gli chiese. Era un uomo dieci anni più vecchio di lui, un analista attento e lo scrittore di algoritmi matematici d’avanguardia, che avevano permesso alla loro società di implementare un motore di ricerca 7 volte più veloce e preciso di Google. La loro società aveva comprato Google, e adesso era quotata fra le 5 software-house più potenti ed influenti del pianeta.
Darius riflettà un momento, ma quell’acronimo non gli faceva venire in mente nulla.
Sentendo il silenzio, Gabriele gli fornì la spiegazione.
WOPR sta per War Operational Plan Response. E’ un sistema informatico capace di calcolare e prevedere gli esiti di una guerra su scala globale: vittime, bersagli designati, nazioni sconfitte e vincenti, zone d’attacco, date e battaglie rilevanti, etc. etc.
Darius era poco più di vent’anni che lavorava nell’informatica, e non aveva mai sentito parlare di WOPR.
E perchè non ne so nulla?” – chiese alla fine.
Perchè è in un film.” – rispose asciutto Gabriele, quasi sorridendo – “Perchè non esisteva.

A Darius sfuggì un sorriso, ma poi notò l’uso del passato: non esisteva. Perchè – si disse – adesso esiste?

Gabriele nel frattempo si girò verso il notebook che teneva lì in ufficio, si loggò. Poi, trascinando un’icona sullo schermo direttamente con le mani, avviò un programma, che si aprì immediatamente a pieno schermo. Darius riconobbe l’interfaccia in Silverlight 7, ma un’avvio così rapido poteva significare solo un’implementazione a plug-in, scaricati ed attivati solo su richiesta dell’utente. Alla fine girò lo schermo verso Darius per mostrargli il contenuto.

Ho creato il mio WOPR, che ho chiamato WOPR_II, usando i soldi che abbiamo intascato il mese scorso con la commessa della Corea del Sud.
Più di 7 milioni di euro?? Per un progetto militare??” – esclamò Darius.
Gabriele sembrò ignorare la cosa. Anzi, rincalzò la dose spiegando esattamente di cosa si trattava.
WOPR_II non solo fa le stesse cose che faceva l’ipotetico WOPR del film, ma grazie al cloud computing e a nuovi algoritmi che ho scritto, fa molto, molto di più. Si interfaccia con i vari sistemi di social networking per scoprire i nomi esatti delle vittime, per sapere esattamente quali città verranno colpite per prime.
Darius ascoltava quasi scioccato. Effettivamente, la gente sempre più spesso usava Facebook, Twitter e Flickr per scrivere ai loro conoscenti dove si trovavano durante il weekend, o quando rimanevano bloccati nel traffico. Se avessero potuto entrare nel database di Facebook, probabilmente sarebbe bastato scrivere una query (magari complessa, ma pur sempre una query) per sapere dove si trovassero i rappresentanti militari di una certa nazione. E quindi cosa conviene colpire oppure no.
Negli ultimi mesi ho analizzato che il 94% delle persone che lavorano al Pentagono degli USA risultano iscritti su Facebook o Twitter. Di questi, il 72% lo aggiorna i giorni, scrivendo e condividendo posti & luoghi dove vanno. In questo momento, possono sapere con precisione dove si trovano generali dell’esercito USA, ed ammiragli della Marina. Hai idea di cosa significhi, questo?
Darius un’idea ce l’aveva eccome, ma aveva quasi paura a dirla ad alta voce.
Significa che abbiamo creato un mostro, un’arma bellica per la quale qualcuno persino uccidere.” – rispose.
Esatto.

Darius era davvero preoccupato. Se Gabriele gli stava dicendo la verità, la loro società era probabilmente coinvolta nella più grande violazione di privacy che la storia umana potesse ricordare. Da ragazzino, quando muoveva i primi passi nel campo della programmazione, aveva già intuito che la 3° guerra mondiale si sarebbe combattuta anche e soprattutto per via informatica. Mai avrebbe pensato però sarebbe stato lui uno dei fautori di questa cosa.

Guardò fuori dalla finestra. Erano le 17:10 di una domenica di estate, ma fuori c’era solo oscurità. Si intravedevano lontane la case di Castelsangiovanni, un centro abitato lì a pochi chilometri. Pensava a quello che Gabriele aveva realizzato, e giunse ad una sola conclusione. WOPR_II era sicuramente un’opera di un genio, ma andava distrutta.

Dobbiamo cancellare tutto, Gabriele. WOPR_II è troppo pericoloso per noi, e per il mondo intero. Chi te l’ha commissionato?
Tu lo sai perchè nella 2° Guerra Mondiale la Germania non riuscì mai ad occupare l’Inghilterra?” – chiese Gabriele al suo socio, evitando la sua domanda.
No, ma non me ne importa…hai sentito cosa ti ho detto? Dobbiamo…”.
Gli inglesi riuscirono ad inventare una prima rudimentale forma di radar, grazie al quale potevano intercettare la flotta tedesca prima che essa giungesse in Inghilterra. In questo modo, nonostante la schiacciante superiorità numerica dell’Asse, l’aviazione inglese – la RAF- alla fine ebbe la meglio. Si chiama Battaglia d’Inghilterra.
Gabriele, mi stai spazientendo, non capisco perchè mi stai raccontando queste cose. Sei impazzito? Ascoltami, andiamo di là, ci beviamo un caffè con calma e decidiamo insieme cosa fare di WOPR_II, ok?” – a Darius sembrava che Gabriele stesse quasi delirando. Parlava senza guardarlo in faccia, il che non era da lui. Sembrava che fosse da un’altra parte, o che stesse parlando al telefono con qualcuno.
Ho applicato gli algoritmi di WOPR_II alla Battaglia d’Inghilterra, e ho scoperto che, ovviamente, senza l’invenzione del radar la Germania conquistò l’Inghilterra senza troppi sforzi. Solo io so però che la 2° Guerra Mondiale sarebbe finita comunque nei primi mesi del 1941: nel suo primo viaggio verso la Londra occupata, l’aereo su cui viaggiava Hitler sarebbe incappato in un violentissimo temporale e precipitò nella Manica. La Germania senza il suo leader abbandonò ogni intenzione bellica. Ma non è questo il punto. Il punto è che WOPR_II è in grado di determinare con precisione quali sono gli avvenimenti, anche banali, che possono far oscillare le sorti di una guerra.

Darius roteò gli occhi. Davvero non ne poteva più. Aveva ascoltato le parole del suo capo senza troppa attenzione. Se lo avesse fatto, probabilmente avrebbe avuto una reazione diversa. Invece, camminò deciso verso Gabriele, con l’intenzione di afferrarlo per un braccio per trascinarlo via dal suo PC, dal suo ufficio, e da quel maledetto WOPR_II che aveva creato

Adesso mi segui e ce ne andiamo a parlare davanti ad una birra! Piantala di farneticare!!!!” – Darius si stava arrabbiando. Nel momento stesso in cui cercò di prendere il braccio di Gabriele, questi si divincolò in una frazione di secondo. Gabriele si allontanò e – per la prima volta da parecchi minuti – lo guardò in faccia.
Si levò gli occhiali da vista, e si passò una mano sulla fronte, come per lavarsi via la tensione e la paura.
Tu non capisci. WOPR_II ha previsto tutto, ha previsto anche questo tuo atteggiamento!
Darius si bloccò di colpo.
Ho applicato gli algoritmi a questi giorni. Non siamo in guerra, è vero, ma adattando opportunamente i parametri delle stored procedure sono riuscito a ricondurre l’output. WOPR_II ha previsto la sua creazione, ha previsto la 3° Guerra Mondiale ed ha capito che giocherà un ruolo fondamentale. Ha previsto persino che qualcuno cercherà di distruggerlo, e quel qualcuno sei tu!

Oh mio Dio, pensò Darius tre sè e sè.

Come ti stavo dicendo prima, WOPR_II è capace di determinare con assoluta precisione ciò che può cambiare l’esito di una guerra. Se ti lasciassi fare, Darius, se cancellassimo WOPR_II in questo stesso momento, io e te moriremmo. Non posso permetterlo, te ne rendi conto?
Stai parlando del futuro come se fosse già accaduto, Gabriele.
Per certi versi è così, credimi.” – rispose tranquillo.
Stai sbagliando. Come sai di aver calibrato correttamente gli algoritmi? Come puoi essere sicuro che il genio dell’uomo non devii il corso della storia? L’hai detto tu stesso: gli inglesi hanno inventato il radar e la storia è cambiata. Come può WOPR_II aver previsto davvero tutto? Il futuro è il futuro perchè deve ancora avvenire, perchè dipende da noi e può essere cambiato e variato in ogni momento. Siamo noi che decidiamo, e non un computer. Siamo scienziati, perdio, usiamo il cervello.

Ma Gabriele, ancora una volta, sembrò non ascoltarlo.
”Non posso permetterlo. WOPR_II ha ragione.”
Da una tasca dei jeans Gabriele estrasse un taser da 250kV e lo puntò contro il suo socio.
Poi premette il grilletto.

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[ByteAdventure] Un cellulare da 50.000 euro [4/4]

Prologo
Alla fine il sistema si spense senza alcun preavviso. Forse la batteria ad un certo punto non ce la fece più ad irrorare di energia tutte le celle di memoria del sistema. Era come se un demone fosse penetrato all’interno del cellulare, e fosse riuscito pian piano ad occupare i punti chiave dell’impianto hardware, i palazzi del potere senza i quali qualsiasi sistema cessa di funzionare.

Si sentì morire come mai gli era successo prima. Era certamente capitato altre volte che la batteria si esaurisse, ma l’OS aveva sempre gestito correttamente la questione, provocando lo shutdown controllato. Ma questa volta fu diverso. L’infrastruttura WMI indicava da troppo tempo che troppe cose non funzionavano più.

Il byte si sentì stretto nella morsa. Aveva una sola flebile via d’uscita.
Poi tutto divenne nero, silenzioso ed immobile.

Parte 1
Tania e Mr.Chipset percorsero i quattro piani tutto d’un fiato, fino a quando raggiunsero il piano terra. I due uscirono all’aperto. La giovane ragazza dovette abituarsi alla luce del mattino presto. Frugarono con lo sguardo, per capire dove fossero finiti Red Mond ed il cellulare di Roland. Ma non videro né l’uno, né l’altro.

“Non cercare il tuo amico, se ne è andato. L’ho visto io quando ero sul balcone del tuo appartamento.” – fece Mr.Chipset a Tania.
”Chip, non era mio amico.” – La ragazza guardò verso l’alto – “Abito al quarto piano, sono quasi quindici metri di caduta in verticale. Come è possibile che un uomo possa sopravvivere cadendo da un’altezza del genere? No, non è possibile, ti stai sbagliando.”
”C’era un camion furgonato che lo aspettava di sotto. E sono pronto a scommettere che era pieno di materassi per attutire la caduta.”
”Un camion?”
”Sì, un camion, un furgone, o qualcosa del genere.”
A Tania vennero in mente le parole di Red Mond che le diceva “Sono arrivati, mia cara.”. Ecco a chi si stava riferendo. Era accaduto qualche minuto prima nella sua cucina, ma già il ricordo le risultava un po’ annebbiato.
”Hai preso il numero di targa, vero?”
”Per chi mi hai preso? Certo che sì.” – rispose lui con un sorriso beffardo – “Ma chi era il tuo amico?”
”Non era mio amico. Era Red Mond.”
”Red Mond? Quello della Overclocking Research? E cosa cavolo ci faceva nel tuo appartamento?”
Lei non rispose.
Tania provò una rabbia che pian piano le cresceva dentro. Nelle ultime ventiquattro ore era rimasta succube degli eventi: il caso del Killer Man, l’esplosione, la morte di Roland, poi Red Mond che si intrufola nella sua vita, tenta di ucciderla e le rivela il segreto del cellulare. Troppe cose in troppo poco tempo. Tutti quegli eventi si erano mischiati nella sua testa, e la ragazza si sentì frustrata: non aveva fatto nulla per prendere le redini del gioco. Aveva semplicemente partecipato come una comparsa, e non come protagonista. Le cose dovevano cambiare: non era il suo modo di agire e giurò che non lo sarebbe più stato. Lo doveva almeno a Roland.

Si girò verso Mr.Chipset. Gli occhi – notò lui – le luccicavano.
Tania lo prese per il bavero della camicia hawaiana con un po’ di cattiveria, tanto che lui ne rimase spaventato.
”Chip.” – prese fiato.
”Dimmi.”
”Red Mond è implicato nella morte di Roland, dobbiamo prenderlo.”
”Ok, tutto quello che vuoi tu. E con il dipartimento che facciamo?”
”Non mi importa, lo gestiremo. Dobbiamo scoprire dove è andato, partiremo dal numero di targa del furgone. Poi vedremo cosa fare. Sei con me?”
”Certo che sono con te!”
”Ok, allora andiamo. Prendiamo la tua Maserati.”
A Mr.Chipset piaceva la determinazione della sua amica Tania. Aprì l’auto con il telecomando a radiofrequenza, salì al posto di guida con lei al suo fianco. Inserì la chiave nel cruscotto e la girò. Il motore partì rombando, poi si attestò sui 2.000 giri al minuto.
”Andiamo a casa mia, scopriremo tutto su quel furgone.” – propose Mr.Chipset.
Lei fu d’accordo.
Non arrivarono troppo lontano. Mentre l’automobile accelerava sempre più, Tania diede un’occhiata allo specchietto retrovisore dal suo lato. Dove prima era parcheggiata la Maserati c’era un oggetto nero, sembrava di plastica. Tania pensò che non poteva essere così fortunata, ma valeva la pena di controllare.

Parte 3
”Fermati, Chip, ho dimenticato una cosa.”
Il ragazzo inchiodò accostando sulla destra, proprio davanti ad un’edicola che stava aprendo i battenti. Il proprietario stava aprendo degli scatoloni di cartone.

Tania aprì lo sportello dell’auto sportiva, corse fuori verso il suo appartamento. Saranno stati 100 metri, questa volta corse davvero quanto Usain Bolt. Ma un po’ più lentamente. Arrivata sul posto raccolse l’oggetto nero. Non credeva ai suoi occhi: era davvero il cellulare di Roland. Evidentemente Red Mond l’aveva perso quando era atterrato sul furgone; era finito sotto la macchina di Chip, lui non aveva avuto il tempo di cercarlo e di recuperarlo e se ne era andato lasciandolo lì. Se non avesse guardato dallo specchietto, sarebbe rimasto lì chissà quanto e chissà chi l’avrebbe raccolto.

Tornò indietro da Chip, che nel frattempo era sceso e stava acquistando un quotidiano in edicola, aspettandola pazientemente.

“Andiamo!” – fece lei – “Mi devi aiutare a rimetterlo in sesto!” facendogli vedere il cellulare.
Lui diede un’occhiata: era completamente sfasciato. “Inutilizzabile” – pensò, ma non lo disse ad alta voce per non farla arrabbiare – “Vedrò quello che posso fare.”

Ma il primo passo lo fece lei. Prese il suo cellulare, che teneva nella tasca dei jeans, e ne estrasse la SIM. Fece altrettanto con quello di Roland. Inserì nel suo cellulare la SIM di Roland, poi lo accese premendo il pulsante di accensione. Mr.Chipset gli aveva spiegato una volta che i cellulari moderni, o almeno i Nokia, avevano un sistema operativo complesso, che richiedeva un certo tempo per partire. Attese pazientemente.

Quando il telefono fu acceso, Tania frugò nei messaggi, poi nel registro delle chiamate, alla ricerca di un maledetto indizio che potesse aiutarla a rintracciare Red Mond. Non sapeva esattamente cosa, ma ci tentò ugualmente. Poi, senza che lei facesse nulla, si aprì l’applicazione Blocco Note. Qualcuno, o qualcosa, cominciò a digitare sulla tastiera. In pochi secondi sul display comparve una scritta…

Ciao Tania, sono io.
So dove è andato l’uomo che cerchi.
7189, QuadCore Road.

Tania rimase di stucco. Chi diavolo aveva scritto quella roba? Poi pensò a quello che gli aveva detto Red Mond: il settore hi-tech della Overclocking Research, le ricerche avanzate nel ramo delle nanotecnologie, celle di memoria senzienti, byte auto-sufficienti. Tutto le sembrava surreale, sembrava che fosse finita in un racconto di fantascienza.

“Non andiamo più a casa tua.” – dichiarò alla fine, mentre Chip continuava a guidare.
”Ah sì? E dove invece?”
”7189 di QuadCore Road.”
”Non è la sede della Overlocking Research. Dove mi vuoi portare?”
”Non chiederlo a me. Chiedilo a lui.” – rispose lei, girando il cellulare in modo tale che anche Chip potesse leggere il messaggio comparso sul display.
”E vorresti dar retta ad un cellulare?”
”Ho le mie buone ragioni.”
”Ok, il capo sei tu!”
L’orologio sul cruscotto indicava sei minuti dopo le ore sei. Tania aveva una gran fame. Mr.Chipset non usava mai il navigatore GPS della Maserati, conosceva la città come le sue tasche. Girò improvvisamente ad un incrocio, imboccando un’enorme strada a due corsie per senso di marcia.
Presto sarebbero stati in tangenziale. A Tania per la prima volta comparve un sorriso.

Epilogo
La ragazza l’aveva salvato. Salvandosi sulla SIM del cellulare, il byte aveva approfittato dell’ultima via di uscita che gli era rimasta. Adesso si trovava in un nuovo hardware completamente funzionante, con tutte le porte di I/O disponibili, con la memoria pronta e reattiva.

Si sentiva quasi onnipotente.
Per sfogarsi non trovò altro modo che visualizzare un nuovo messaggio sul display.

Brava ragazza.
Sarò sempre qui con te.

Poi accese la videocamera. Quello che inquadrò era un volto femminile.

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[ByteAdventure] Un cellulare da 50.000 euro [3/4]

Prologo
Il giocatore di golf era inzuppato fino al midollo. La scommessa con il suo collega lo aveva portato fin lì, sul percorso PGA di Pebble Bit, a giocare la buca 5 sotto il diluvio, all’alba, e mentre tutta la città dormiva ancora. Sebbene indossasse ottime scarpe Oakley ed una giacca impermeabile della stessa marca, la pioggia battente non gli dava tregua. Aveva un freddo boia. La partita almeno sembrava essere ok.

Venti minuti prima era uscito splendidamente dal tee, evitando il bunker sulla sinistra e sfruttando la pendenza del green. Se ci fosse stato il suo vecchio trainer a guardarlo, sarebbe stato dannatamente orgoglioso di lui. Il ferro 8 era ancora – e lo sarebbe sempre stata – la sua mazza preferita. Aveva messo la palla a soli 9 piedi dalla buca. Adesso stava studiando l’ultimo colpo da ogni direzione, nel tentativo di valutare correttamente la pendenza e la forza con cui impattare: il terreno era pesante e lento.

Alla fine si decise. Impugnò il putter e si posizionò davanti alla pallina. Si concentrò al massimo cominciando il backswing. In quegli attimi si isolò da tutto: non sentì le gocce di pioggia cadergli sul berretto, nè vide le fronde degli alberi scosse dalla brezza gelida, nè pensò al suo birdie che gli avrebbe fatto vincere la scommessa.

Venne disturbato solamente dal trillo acuto del cellulare che teneva nella tasca posteriore dei pantaloni, che lo avvisava dell’arrivo di un nuovo messaggio SMS.

Il giocatore di golf trasalì violentemente per lo spavento, ed interruppe lo swing prima che fosse troppo tardi.

Parte 1
Trasalì anche Mr.Chipset, che stava davanti al monitor a quell’ora del giorno, con i suoi capelli lunghi e la pancetta appena un po’ pronunciata. Tiger Woods, il suo alter-ago all’interno del videogame, avrebbe dovuto attendere ancora un pochino per completare la buca. Imprecò violentemente: ancora un niente e la sua partita (e soprattutto la sua scommessa) sarebbe andata in malora. Poi il suo lato geek gli permise di tranquillizzarsi: in fondo la pallina era sempre lì che lo guardava, stampata 60 volte al secondo sullo schermo Samsung LCD da 22″, con un ammasso di pixel dal colore molto simile al bianco.

Il ragazzo prese il cellulare Samsung che teneva in tasca e lesse il messaggio sullo schermo monocromatico. Il mittente era Tania. Il testo diceva:

Chip, Aiuto! Linux non ne vuole saper di fare il boot.
Siamo in missione, passa da me. Subito!

Riflettè un attimo.

Mr.Chipset aveva almeno due buoni motivi per storcere il naso di fronte a quel messaggio. Primo, Tania di tecnologia non capiva nulla: non avrebbe mai parlato di Linux o di boot in un SMS, a meno che non avesse fatto un corso intensivo di informatica durante l’ultimo weekend. Ma lo riteneva improbabile. Secondo, Tania non avrebbe mai rivelato di essere in missione: lui stesso faceva parte del dipartimento della ragazza, e sapeva come funzionavano queste cose.

Il messaggio poteva voler dire soltanto una cosa.
Tania era in grave pericolo.

In qualche modo, aveva trovato il modo di chiedergli aiuto. Mr.Chipset mise in pausa il gioco, si alzò in piedi stiracchiandosi, prese il revolver dal cassetto chiuso a chiave e le chiavi dell’auto. Nel giro di pochi secondi, era alla guida della sua auto italiana, sfrecciando veloce fra le strade della metropoli ancora dormiente.

Parte 2
Tania fissava la canna nera della pistola che Red Mond gli puntava contro.
Aveva ancora in mano il cellulare di Ronald.
Continuava a ripetersi nella mente il testo del messaggio:

Mi porterà via. Non voglio. Ti ucciderà.

Ti ucciderà. Per adesso, l’unico che voleva farla fuori era Red Mond, un perfetto sconosciuto che gli era piombato in casa all’alba senza una valida ragione. E se il messaggio parlasse proprio di lui? Ma chi l’aveva mandato?

Ora, Tania, tu ti siederai con calma sulla sedia e mi consegnerai il Nokia che hai in mano.” – ordinò l’uomo a Tania.
Lei obbedì senza fiatare. Non che avesse molta scelta.
Sei una ragazza in gamba, ti pagheremo, ma non vivrai abbastanza per goderti i tuoi soldi. Sai, ti abbiamo usata come un burattino…ti abbiamo fatto credere di voler il cellulare del dottore. In realtà anche lui lavora per noi. Noi volevamo quello del tuo amico Roland, ed eccolo qui.” – spiegò Red Mond con spavalderia.

Prima di continuare, l’uomo manovrò con la mano sinistra sul cellulare per metterlo off-line, tenendo sempre l’arma puntata su Tania.
Questo cellulare nasconde un piccolo segreto, ma adesso nemmeno lui può salvarti. Da questo momento è completamente isolato, così come lo sei tu.

Di che diavolo stai parlando?” – sussurrò Tania gelida.
Ma Red Mond non rispose. Prese del succo d’ananas dal frigorifero e si riempì un bicchiere di vetro preso dalla credenza. Si sedette di fronte a lei, dando le spalle alla porta di ingresso, e bevve tutto in un solo sorso. Sembrava che stesse aspettando qualcosa, o qualcuno. Forse il momento giusto per dire o fare qualcosa. Tania non lo capì mai. Buttò l’occhio sull’orologio dell’uomo e vide che indicava le cinque e trentacinque minuti.

Poi, all’improvviso, si sentì una macchina arrivare veloce, rombando, e sembrò fermarsi proprio sotto il palazzo di Tania con una frenata stridente. Red Mond parve risvegliarsi.
Sono arrivati, mia cara.

Parte 3
Mr.Chipset scalò velocemente dalla terza marcia alla prima, fermando l’auto a trazione posteriore in un parcheggio riservato agli handicappati. In quel momento il suo senso civico non era proprio alle stelle.

Entrò di corsa in portineria, cercò il portinaio per dirgli di chiamare la polizia, ma quando entrò nel gabbiotto lo vide riverso sul pavimento, con gli occhi sbarrati e senza vita. Il ragazzo vide un filo di nylon attorno alla gola dell’uomo. Qualcuno lo aveva ucciso strangolandolo. Decise di proseguire da solo, sebbene questo andasse contro tutte le regole del dipartimento. Una volta Tania l’aveva fatto per lui, ora era il momento di ricambiare il favore.

Mr.Chipset era stato una sola volta a casa di Tania. Si ricordava perfettamente tutto. Prese uno dei due ascensori disponibili e salì fino al piano prima rispetto a quello di Tania: avrebbe fatto l’ultimo tratto a piedi, usando le scale, per evitare di essere prese alla sprovvista quando si sarebbero aperte le porte.

Nei pochi secondi di attesa, il ragazzo controllò il revolver.
Era carico, con sei colpi in canna.

Ding. L’ascensore era arrivato. Uscì dalla cabina e prese la direzione delle scale. Tutto sembrava tranquillo. Salì velocemente la rampa e in meno di trenta secondi si ritrovò davanti all’appartamento di Tania.

La porta era aperta. Mr.Chipset si avvicinò silenziosamente, impugnando il revolver con entrambe le mani, aumentando lo stato di allerta. Una voce maschile parlava, rivolta ad un’altra persona, che però se ne stava in silenzio.

Ora sai tutto. Ecco perchè questo Nokia è così importante. Te l’ho detto per onestà, affinchè tu abbia chiaro il motivo per cui adesso devo…farti fuori.” – disse la voce maschile.

Mr.Chipset entrò nell’appartamento della ragazza; lo riconobbe come se ci fosse stato il giorno prima. Merito dell’addestramento. La prima stanza sulla sinistra era la cucina, e la voce sembrava arrivare da lì.

Mosse un passo dopo l’altro.
Tre metri. Passo, respira, cammina.
Due metri. Aspetta, respira.
Un metro.

Girò di colpo l’angolo, puntando la pistola.

“Fermi, su le mani. Agenti federali!”

Vide Tania seduta su una delle sedie, assonnata, con addosso vestiti stropicciati come se ci avesse dormito dentro. E due occhiaie che non aveva mai visto su di lei. Ed era impaurita. Mr.Chipset conosceva bene la ragazza, e gli sembrò impaurita da lui. O confusa, forse. Lui, chiunque fosse, era vestito elegante. Nel momento in cui entrò in cucina con il revolver spianato, gli dava le spalle.

Tania rimase impietrita. Che ci faceva Mr.Chipset nel suo appartamento? Se avesse potuto, gli sarebbe corsa incontro, ma Red Mond aveva ancora la sua pistola lì sul tavolo della cucina.

Mr.Chipset si avvicinò a Red Mond tenendo l’arma puntata su di lui.
”Coraggio, Tania, va tutto bene, è tutto finito.” – disse l’agente tranquillizzandola.
Fu solo adesso che Tania si sbloccò. Afferrò la calibro 45 di Red Mond – che non disse nulla – e si mise accanto al suo compagno di squadra.
Grazie, ma…cosa ci fai qui? Sei venuto a farti un giro?” – chiese la ragazza.
”E me lo domandi? Ho letto il tuo messaggio di aiuto!”.
Impossibile, non ho mandato messaggi di aiuto.” – fece lei risoluta.
”Ne parleremo dopo, adesso abbiamo un po’ da fare, non credi?”

Poi tutto accadde velocemente.
“Cosa sta succedendo qui?” – chiese una voce timidamente alle spalle dei due agenti.
Tania e Mr.Chipset si girarono di colpo con le armi in pugno, allarmati.
La ragazza riconobbe subito il suo vicino di casa, che era solito alzarsi a quell’ora per fare jogging.
MALEDIZIONE! C’è ancora qualcuno che vuole farmi visita…” – urlò la ragazza.
Ma non riuscì mai a finire la frase.

Uno schianto. Poi un fragore, come una vetrata in frantumi. Schegge di vetro dappertutto.
Si girarono di colpo: Red Mond era sparito. La vetrata della porta balcone della cucina sembrava esplosa. L’uomo doveva averla sfondata con tutto il peso del suo corpo per buttarsi di sotto, per sfuggire alla cattura. Tania sentì sulla sua faccia l’aria pungente ed inquinata del mattino. Si svegliò un pochino.

Mr.Chipset corse subito sul balcone e si affacciò giù. Non disse nulla, frugava con lo sguardo alla ricerca di Red Mond che – evidentemente – era sparito chissà dove.
Oh mio Dio! Dov’è finito il cellulare? Dov’è???” – fece Tania agitata.
”Di quale cellulare parli?”
”Quello di Roland. Era sul tavolo un attimo prima che tu…” – la frase le morì in gola.
Tania capì. Red Mond l’aveva appoggiato sul tavolo, ma doveva esserselo ripreso un istante prima di buttarsi dal balcone. Questo significava una sola cosa: entrambi, sia l’uomo che il cellulare erano sfracellati sull’asfalto. Del primo non gliene importava granchè, anzi. Ma del secondo…

Tania non aspettò un istante di più. Scostò violentemente il vicino di casa e corse giù per le scale.

Epilogo
L’OS era funzionante. Lui stava bene, ma già da qualche TimeSpan non riusciva più a comunicare con il mondo esterno. Sperava solamente che l’ultimo SMS in uscita fosse arrivato al destinatario, e che quest’ultimo fosse intervenuto. Poi arrivò un interrupt con delle importanti novità.

L’interfaccia WMI del sistema operativo gli comunicò che molte delle interfacce di I/O erano disabilitate.
Antenna GSM: N/A.
Antenna GPRS: N/A.
Qualità del segnale: N/A.
Ricezione SMS: N/A.
Invio SMS: N/A.
Display: N/A.
In più, sembrava anche che il 34% delle celle di memoria fossero completamente inutilizzabili. Trauma fisico. Ricordava di aver superato dei test di questo tipo in laboratorio, ma mai così duri ed intensi. Si credette spacciato.

Passarono gli attimi, e l’OS si preparò ad entrare in standby per preservare le funzioni base.
Lui ebbe appena il tempo di trasferirsi sulla SIM: se qualcuno fosse accorso in aiuto, magari poteva finire ospitato in un altro hardware. Solo allora, solo così, avrebbe potuto ricominciare daccapo tutto quanto.

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